venerdì 19 dicembre 2014

- 7 giorni: La "cosa" più bella della mia vita

Arrivata senza farsi pregare, senza scomodare gli angeli, senza uccidermi di dolore.
La mia rosellina d'aprile.
Dolce da quando ha visto il mondo, buona come suo padre, mai scassato le palle una volta in 3 anni e 8 mesi.
Solo a pronunciare il suo nome mi sciolgo:
GIULIA ROSE.
Dolce come il nome che porta, qualunque dolore o preoccupazione io abbia, basta un suo abbraccio per farmi passare tutto.
Da grande inventerà una professione: farà l'abbracciatrice e manterrà tutta la famiglia.
Perché con il padre violinista, la madre scrittrice, la sorella maggiore pittrice... l'unica nostra speranza è riposta in lei, con i suoi abbracci.
Avrà un suo studio, accoglierà i pazienti con un camice lilla.

"Cosa sono quegli occhi tristi?"
"Sa, dottoressa, mi va tutto storto".
Lei allarga le sue braccia, e abbraccia, e consola, e perdona, abbraccia, consola.
"Mi sento meglio, dottoressa. Non so come ringraziarla. Quanto le devo?"
"Sono 50 euro, grazie"
"Ma che, sta scherzando?? Io gliene do 200. Ci vediamo la prossima settimana."
La nostra abbracciatrice professionista, con gli abbracci che curano l'anima.
Con quei suoi due occhi grigi dalla profondità infinita, un cuoricino al posto delle labbra, quel suo modo di parlare...
Qualcuno mi raccolga.


martedì 16 dicembre 2014

- 10 giorni: LUI

E poi a un certo punto, quando mi convinco che l'intero universo maschile sia uno schifo, arriva lui.
I suoi predecessori gli hanno steso metri e metri di tappeto rosso, suonato trombe, liberato colombe.
Lo conosco in maniera miracolosa, poi lo incontro a una festa in casa mia, negli unici sei mesi in cui vivo da sola.
La gentilezza fatta persona, così a modo che penso che sicuramente è gay, come tutti gli uomini migliori.
Ma il giorno dopo mi telefona, al mio compleanno mi fa gli auguri suonandomi al telefono una musichetta al pianoforte che fa partire il fax...
Mi invita a festeggiare con lui e i suoi amici il capodanno, alla festa sono tutti gay.
Dopo due giorni lo invito a cena a casa mia, scongelo due confezioni di salti in padella - a ventinove anni cucinavo così - poi andiamo dalla mia amica sposina giù al primo piano, che mi dice "questo è il migliore di tutti" e io le rispondo "ma non siamo insieme, è gay".
E invece aveva ragione lei.
Dopo sei mesi vivemao insieme, io intanto aspettavo che tirasse fuori il lato brutto del suo carattere.
Dopo 11 anni, di cui 10 e mezzo di convivenza e due figlie, sono ancora qui che aspetto.
Giorgio, l'uomo più gentile dell'universo, il più felice, buono - non gli ho mai sentito dire una cattiva parola su nessuno - onesto, umile, fantasioso, leggero, ironico, intelligente, dolce, carismatico, è il mio uomo.
E io, che sono sempre scontenta di tutto, non sono scontenta di lui.
Anzi, mi ripeto che non lo merito.
Che la mattina si sveglia un'ora prima per preparare la colazione a me e alle bambine, che mi vizia in tutti imodi, che mette la mia felicità prima della sua. Che mi dice che è felice delle bambine, ma che più di tutto è felice di me.
Non lo merito, ma ringrazio la vita, che è stata molto gentile con me :-)

Dal mio romanzo inedito:



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Aveva conosciuto Giorgio tre mesi prima su internet; non in uno di quei siti appositamente dedicati agli incontri di coppia, figurarsi, Giulia quei covi di assatanati li evitava come la peste.
Giorgio aveva trovato il suo blog per caso; era una calda notte di fine estate, e lui era incappato per sbaglio in una sua poesia mentre navigava alla ricerca di nuove idee per la creazione di un sito web. Non era solito lasciare segni dei suoi passaggi virtuali negli innumerevoli siti in cui scivolava, ma quella volta gli sfuggì un breve commento, al quale lei non esitò a rispondere.
Giulia si stupì molto per quell’incontro, così gli chiese come avesse fatto a sbucare dal nulla in quel modo. Era davvero impossibile scovare quel suo rifugio segreto, a meno che non se ne conoscesse il link.
Lui le rispose con una lunga lettera, in cui le parlò del nulla…
Così, quasi senza accorgersene, si trovarono a scriversi delle e-mail a cadenza settimanale, in cui lui le raccontava del suo amore per la musica e lei gli parlava di poesia.
A nessuno dei due era venuto in mente di invitare l’altro a prendere un aperitivo, ad esempio, per incontrarsi davvero, sebbene abitassero ad una trentina di chilometri di distanza. Fino a quando non si scambiarono un invito nello stesso identico istante.
Erano trascorsi quattro mesi da quel loro fortuito incontro, e mentre lui le scriveva che il ventitré dicembre avrebbe suonato col suo Quartetto a Milano, e la invitava al concerto, lei, nello stesso momento, lo invitava alla festa che aveva organizzato proprio per quella sera a casa sua.
Era evidente che la vita aveva scelto per loro una data; avrebbe potuto evitare, però, di comunicarlo a entrambi nello stesso identico istante!
Decisero così, rigorosamente tramite e-mail, che si sarebbero incontrati dopo il concerto di Giorgio, alla festa di Giulia.
Così Giulia arrivò alla sera di quel ventitré dicembre, maledicendo Fabrizio e fantasticando su Giorgio.

 3


Tre ore prima dell’inizio della festa, Giulia si trovava in fila alla cassa del supermercato vicino casa, con un carrello strapieno di cibarie, dieci persone in fila prima del suo turno e un tempo d’attesa di almeno mezz’ora. Aveva pochissimo tempo per correre a casa, dare una rassettata generale, preparare tartine e dolcetti, spargere le candele e accogliere gli ospiti!
Ma anche quella volta il tempo fu clemente con lei.
Era una sua qualità innata quella di riuscire ad arrivare sempre puntualissima, nonostante i contrattempi, ai suoi appuntamenti.
Alle dieci di sera, quando iniziarono ad arrivare gli ospiti, aveva appena passato il rossetto sulle labbra, e ogni cosa era magicamente al suo posto.
Iniziò a convincersi di avere la capacità soprannaturale di rallentare il tempo, e poi dilatarlo; di volgerlo insomma sempre a suo favore. Anche sforzandosi non riusciva proprio a trovare un’altra spiegazione a quell’altalena temporale!

Gli ospiti iniziavano ad arrivare, a processione.
Dapprima le amiche, coi loro complimenti di routine come-hai-addobbato-bene-casa, che-bella-cera-che-hai, cosa affatto vera poiché la sua stanchezza era evidente anche con due centimetri di fondotinta; poi arrivarono i ragazzi, prima i suoi amici, poi gli amici delle mie amiche.
Ma l’ospite più atteso tardava ad arrivare e l’ansia saliva vertiginosamente. Era il suo primo appuntamento al buio!
Tutto ciò che conosceva di quell’uomo era il suo nome, Giorgio, che di mestiere faceva il violinista - qualcosa che apparteneva a un’altra epoca, così affascinante! - che aveva praticamente la sua stessa età e non abitava molto distante da lei.
Non riusciva a immaginarselo fisicamente, non aveva mai visto una sua foto né sentito la sua voce. Si erano scritti una quindicina di e-mail in quei mesi, nelle quali entrambi avevano evitato di descriversi esteriormente ma dalle quali era trapelata una rara gentilezza di lui… qualcosa a cui lei non era abituata.
In genere chiunque la incontrasse la invitava a uscire il giorno dopo; lui non lo aveva fatto. Era questo che più di tutto la incuriosiva.
Non sapeva se fosse un bel ragazzo o meno, e nemmeno se fosse già impegnato. Ovviamente sperava che fosse bellissimo e single… in qualunque caso sarebbe diventato importante per lei. Non le fosse piaciuto fisicamente – o fosse stato sposato - sarebbe diventato quantomeno il suo migliore amico.

Poco prima della mezzanotte suonò il citofono.
Dall'altra stanza le sue amiche cinguettarono Giulia-corri-sono-arrivati!, oddio-che-emozione-che-emozioooneee!, e lei corse, il tempo le venne incontro rallentando impercettibilmente… riprese fiato, rispose:  «venite!» con forse troppo entusiasmo.
Ebbe giusto un attimo per guardarsi allo specchio: i capelli non le stavano affatto bene, e quegli occhi stanchi… le ricordarono gli occhi che aveva giurato di non volere rivedere mai più!

Li aveva truccati troppo.

Sei mesi… erano trascorsi appena sei mesi dalla fine dell’incubo.
Come era riuscita a fuggirne?
Abbassò lo sguardo.
Si guardò nuovamente allo specchio, con una tristezza infinita.
Ne era fuggita davvero, o stava solo sognando?
Giulia-vieni-sono-arrivati! Provò a scuoterla Michela.
Giulia guardò sua sorella, riflessa nello specchio.
La vide svanire.
Due mani le cinsero la vita.
Un bacio sul collo.
«Sei bellissima», le sussurrò David, sfoggiando il suo sorriso migliore, «stasera faremo scintille.»

Giulia odiava quel sorriso.
Giulia odiava Los Angeles.
 

sabato 13 dicembre 2014

- 13 giorni: mio padre

Mio padre.
L'uomo più intelligente e irascibile dell'universo.
Buono, calmo, la voce sottile, poi d'un tratto va in escandescenza e diventa un demonio.
Un'indole complicata, zitto per ore, fa di quelle sparate da lasciare a bocca aperta.
Increduli.
Non possono uscire da lui certe bestialità.
Gentile, a modo, umile.
Lo dissero una volta di me, che ero come i gattini. Che stanno lì buoni buoni  poi di colpo ti saltano agli occhi e ti sfregiano senza pietà.
Mio padre, la persona che mi assomiglia più di tutte.
Stesso caratteraccio, stesso viso.
Stesso intuito, intelligenza, stesso senso degli affari.
Anche se io, di tutto questo non me ne farò mai nulla.
Decimo di dieci figli, arrivato quando mia nonna sperava di essere in menopausa, nacque alla fine della seconda guerra mondiale. In una famiglia che aveva fatto la fame, vissuto il terrore, ma che a lui - il piccolo di casa - diede il  meglio.
Il meglio di niente.
Ma sono le intenzioni che contano, il più delle volte.
Visse in Sicilia fino a dodici anni, si trasferì in Romagna con la sua famiglia dove fece il contadino, e poi dai diciassette a Milano, dove iniziò a lavorare il ferro. Conobbe mia madre e la sposò, nel frattempo avviò un'attività in proprio che ancora esiste, e andrebbe a gonfie vele se non fosse per questa maledetta crisi.
Due occhi verdi che mia madre vede azzurri, una fronte spazioooosa, il naso aquilino.
Rughe portate con orgoglio, la schiena dritta, le mani consumate dal lavoro.
Le nostre litigate a tavola sono memorabili.
Due fulmini che si scontrano con la stessa potenza.
La vita si è divertita regalandoci lo stesso carattere ma le idee opposte.
Abbiamo dato di quegli spettacoli io e lui...
Molte cose non gli ho mai perdonato, altrettante non le ha perdonate a me.
Senza dubbio mi ha evitato di compiere numerosi sbagli, con quei suoi modi poco raccomandabili, ma me ne ha fatti fare altrettanti, nell'idiota tentativo di vendicarmi di lui.
Come quando iniziai a fumare. Lo feci per fargli un dispetto, ma in realtà il dispetto lo stavo facendo a me stessa.
Mi ha permesso di vivere una vita agiata, evitato la disperazione, fatto sorridere quando ero giù, demoralizzata quando ero su, amata SEMPRE.
E io l'ho amato, odiato, ammirato, disprezzato, maledetto, benedetto.
C'è da diventare pazzi con lui!
Lunatico, bisbetico, insostituibile padre.
Unica immagine allo specchio che mi è sopportabile.

sabato 6 dicembre 2014

- 20 giorni: L'altra parte di me

La Stefania che appartiene al mio primo ricordo.
Ci sono io, una bambina qualunque, che scappa dalla mano del nonno e attraversa una strada correndo; Ninetta e Lisa che attraversano un attimo prima di me, si voltano, urlano: non passareeeeeeeee.
Ricordo l'impatto, un rumore che mi entra dentro, un calore alla testa, vedo tutto rosso. Tutto rosso e poi tutto nero. E poi vedo una bambina per terra, la vedo dall'alto, avvolta nel buio. E' per terra,  in posizione fetale. La osservo meglio. Sono io! Ma come posso essere laggiù, e allo stesso tempo quassù?
Questo è il mio primo ricordo.
Da allora molte volte mi accadono cose inspiegabili, ma reali, come reale fu quello sdoppiamento.
Ad esempio, ma non mi accade da tempo, sento i miei custodi.
Li chiamo così, perché istintivamento penso che siano dei miei antenati - sono antichissimi - ed esistano per custodire me. Magari non solo me, ma sicuramente ANCHE me. E ogni volta in cui mi succede qualcosa che stravolge la mia esistenza, un evento potentissimo che magari può sembrare banale ma per me è di importanza vitale, loro si manifestano. Non so se li ho sempre accanto e solo in alcuni momenti riesco a sentirli. O se vengono a trovarmi ogni tanto. Non so esattamente nemmeno che forma abbiano, cosa realmente siano. Conosco però le sensazioni che mi trasmettono. E cioè... calore. Senso di protezione. Come se qualcuno mi sussurrasse "non avere paura, non sei sola. Ci siamo noi qui con te".
Ma loro non parlano. Quando li sento - nel dormiveglia - loro ci sono e basta. La loro penombra è una luce fioca che da sul giallo, giallo scuro. Ed è come se stessero festeggiando. Sono sempre in una stanza accanto alla mia, e in genere festeggiano. Festeggiano i miei passaggi importanti, credo. L'ultima volta riuscii a percepirli quando arrivò Giorgia. Non sapevo ancora di essere incinta, forse non lo ero ancora, forse festeggiarono la rinascita della mia bambina dentro di me. Forse l'accompagnarono loro, forse uno di loro si rincarnava, so che si manifestarono per molte notti di seguito. E io quasi mi spaventai. Pensai che fossero venuti a prendermi - perché so che sarà così: quando arriverà il mio momento, verranno a prendermi - e invece erano venuti a portarmi lei :-)
Tutte le cose strane che mi accadono, mi succedono sempre nel dormiveglia. Quando il mio corpo è addormentato e probabilmente la mia mente è persa in qualche sogno. Ma quella parte di me, la terza, è sospesa e ricettiva.
Come quando percepii il funerale di mia nonna un mese prima che morisse. Vidi chi c'era e chi non c'era, e il giorno del suo funerale, c'erano e non c'erano le persone che già sapevo.
Come quando quella notte mi ritrovai per aria, vagavo per le stanze... guardai Giorgia che dormiva nel suo lettino, vidi me stessa abbracciata a Giorgio, sbirciai Giulia Rose di 4 mesi che dormiva nel mio pancione. Sorrisi. Era una femmina!
Ma quel sorriso non era mio.
Ridevo con la bocca di Michela.
Il mio corpo addormentato aprì gli occhi. Vide una luce bianca sopra di se, come il flash di una fotocamera. Un flash che fece il giro della stanza e volò via, alla velocità della luce.
Urlai.
Poi piansi.
Poi dissi a Giorgio che Miki non c'era più.

A volte sento il profumo di mia nonna da sveglia. Allora chiudo gli occhi e lo seguo. E ogni volta che li riapro, sono sotto la sua foto in camera mia.

A volte chiudo gli occhi e vedo dei paesaggi nitidi, mai visti prima, ma che mi danno un tale conforto, un tale senso di CASA, che in questo mondo non ha eguali.

A volte incontro dei volti che mi guardano mentre dormo. Non sono quelli dei miei custodi. Se solo trovassi il coraggio di chiedere loro cosa vogliono. Se solo potessi fare qualcosa per loro.

A volte qualcuno mi soffia sul volto, ma non c'è nessuno. Allora mi rilasso e respiro quell'aria fresca e leggera che sa di respiro di neonato.

A volte...

A volte, sono anche così.

martedì 2 dicembre 2014

Giorno 5: i bambini vanno protetti finché sono indifesi

Perché a 8 anni un bambino è indifeso.
Adesso i genitori del piccolo Loris piangono e si disperano alla tv. Cosa gli costava accompagnarlo fino all'ingresso della scuola e aspettare di vederlo arrivare in fondo ai corridoi?
Certo, non è colpa loro se esistono i mostri, è però colpa loro essersi comportati fingendo che non sia così!
Ah, ma nei paesini non succede, ai nostri tempi non succedeva!
Ai-nostri-tempi-non-succedeva-un-cazzo!
Succedeva, eccome.
Ai miei tempi, in un paesino, si usava mandare i bambini a scuola da soli, già dalle elementari. Non solo andavamo a scuola da soli, addirittura mi capitava di accompagnare mio fratello più piccolo alla materna, mettergli le pantofoline e il grembiulino, dargli il bacino e poi andare nella scuola accanto in prima elementare.
Ah ma adesso i bambini sono più svegli, dice il genitore del bimbo che a sei anni non sa ancora allacciarsi le scarpe.
Sapete...
C'era una volta una bambina che oltre che andare a scuola da sola, andava anche a ginnastica artistica da sola. La palestra era a duecento metri da casa, e lei due pomeriggi alla settimana percorreva una stradina isolata, con uno zaino più grande di lei sulle spalle, per poter raggiungere il luogo dove poteva scatenarsi a fare le ruote e le rovesciate.
Ma a ottobre cambiò l'orario, e a novembre di ritorno dalla palestra quella stradina diventava sempre più buia.
Una sera la bimba camminava spensierata, stanca per l'allenamento ma appagata, e vide un uomo in lontananza accanto a una 131 rossa, ma non ebbe paura. I mostri non avevano sembianze umane, questo le aveva insegnato la tv.
Quando gli passò accanto, lui - un uomo  sui quarant'anni, basso, cicciottello e pelato - le rivolse la parola.
Le disse: "ne vuoi un po'?"
La bimba alzò lo sguardo e si accorse inorridita che l'uomo, con i pantaloni abbassati, allungò una mano per afferrarla.
La bambina si spaventò molto, ma anziché rimanere paralizzata dalla paura, prese a correre con tutte le sue forze. Corse a perdifiato, portandosi dietro l'enorme zaino perché se lo avesse perso una sculacciata non gliela avrebbe tolta nessuno. L'uomo salì in auto e la inseguì, ma lei corse, prese delle scorciatoie, si infilò nel cortile dal retro e in un battibaleno era davanti casa sua che non riusciva a parlare per quanto piangeva.
La madre della bambina iniziò a piangere anche lei, il padre uscì furibondo: se lo becco lo ammazzo.
Il padre non trovò il maniaco, la madre smise di piangere, e dopo un paio di settimane la bambina si trovò a percorrere quella stessa strada da sola. Con una paura indicibile, ma sola.
Se quella bambina fosse stata violentata e assassinata, immagino che la sua famiglia si sarebbe disperata. Ne avrebbero parlato i giornali, avrebbero posto una taglia sulla testa del mostro.
Quella bambina che adesso ha quarant'anni sa che i mostri esistono e che hanno sembianze umane.
E le sue figlie le protegge, le accompagna e le va a prendere ovunque, non le lascia sole in auto, non le perde mai di vista. E lo farà finché le sue bambine non potranno difendersi da sole. Cioè finché non saranno alte un metro e settanta e saranno in grado di prendere a calci nel culo un maniaco.
Perché di maniaci ce ne saranno sempre tanti. Di genitori attenti e premurosi ce ne sono ancora pochi.

lunedì 1 dicembre 2014

Ultimo mese da 39enne: giorno 4.

Una neonata paffuta e morettina. Mia madre la vede e decide che è giunto il momento anche per lei di avere una figlia femmina. Mio fratello grande ormai ha quasi 5 anni. Mio padre non ha più scuse.
Come facevano una volta ad avere i figli quando volevano e sceglierne pure il sesso non si sa, comunque dopo 9 mesi arrivai io.
E quella neonata iniziava a stare seduta e mi guardava con due dolci occhi neri molto curiosi.
Unite da un pianerottolo, le porte di casa sempre aperte.
Insieme all'asilo, insieme alle elementari. Morì suo nonno e glielo dissi io. Si infuriò. Non era vero, ero una bugiarda. Quando suo padre si ammalò gravemente mia madre mi disse di non dirle nulla. Di non dirle che stava per morire a 33 anni quando lei ne aveva solo 8. Lo seppe dagli altri. Quella volta non si arrabbiò con me. Ma c'era Manu di 2 mesi, la sua sorellina un po' anche mia, e aveva una madre che viveva per lei. Senza grossi traumi la nostra vita andò avanti, frequentammo le medie insieme, le superiori, la ginnastica artistica, la pallavolo, il nuoto. I primi fidanzati insieme, il primo bacio insieme, poi lei si sposò, e quasi mi sposai anch'io ma il mio corpo si oppose. Mi venne una depressione fenomenale che mi devastò qualche anno, ma che mi fece lasciare quell'uomo tanto buono e gentile ma che non era giusto per me.
LEI intanto faceva la moglie e io la fidanzata, desiderò un figlio che non arrivava. Lasciò il marito quando io partii per la California. Andai via proprio in quei sei mesi in cui forse aveva più bisogno di me.
Ma certi treni, passano solo una volta.
Tornai e lei mi parlò di questo suo nuovo infinito amore, dopo qualche mese me lo presentò. Mi aspettavo un uomo alla sua altezza, un signore. Mi presentò uno con la faccia da bugiardo. Glielo dissi. Non me lo perdonò. Non mi parlò 5 anni. 5 anni in cui io, la sognai tutte le notti. Nel frattempo incontrai l'uomo che avrei sposato e che sarebbe diventato il padre delle mie figlie, lo sposai, nacque la mia prima figlia ma io tutte le notti sognavo LEI. Quando mi sposai le uniche lacrime che versai sull'altare furono perché LEI non era vicino a me. Quando nacque Giorgia e me la misero in braccio, e stavo per morire dissanguata e Giorgio piangeva, mia madre piangeva, il ginecologo bestemmiava, io pensavo a LEI.
Seppi da vie traverse che finalmente, dopo tanti anni era rimasta incinta. Sua figlia sarebbe nata 9 mesi dopo la mia. Dissi alle vie traverse che la gioia di questa notizie era identica a quella provata per la mia stessa gravidanza. La voce volò - non viaggiano solo le malelingue, per fortuna - e lei mi perdonò. Il 20 febbraio ci ritrovammo e fu come se quei 5 anni non fossero mai passati. Parlammo come se niente fosse accaduto e lei incinta, con i capelli neri lunghi fino alla schiena, era incantevole.
Nacque la sua bambina nello stesso ospedale in cui nacque la mia, andai a trovarla ogni giorno. Era felice e innamorata e increula. Aveva solo una strana ombra negli occhi. Quel nodulino le dava un po' fastidio, ma lo aveva già fatto vedere, non era nulla di grave. Lo avrebbe tenuto sotto controlllo. A sette mesi della bambina decisero di toglierle il latte. Il nodulino cresceva e in ospedale glielo riducevano agoaspirandoglielo, ed erano così sicuri che non fosse nulla di male che nemmeno analizzavano il liquido. Agoaspiravano, osservavano in controluce e buttavano nel lavandino. Solo che non poteva andare avanti così in eterno, e per assecondarla i medici decisero di intervenire chirurgicamente.
Al prericovero il senologo si mise le mani nei capelli.
Forse non è benigno, disse.
Le disse così.
La mandò in un centro specializzato e no, non era benigno. E ce l'aveva da un anno.
Nel 2010 a Milano un ospedale sbagliava una diagnosi.
Nel 2010 a Milano un ospedale assassinava una giovane donna, una giovane madre, una giovane figlia, amica, sorella, nipote.
Il 14 novembre del 2010, alle 4:45, dopo essere stata torturata un anno, MICHELA morì.
Michela, la mia unica AMICA.
L'unica sorella che non ho mai avuto e che non avrò mai più.

sabato 29 novembre 2014

Giorno 3: la California



Una delle esperienze più importanti della mia vita. Quella che mio padre continua a rinfacciarmi, anche se avevo 27 anni e di anni ne sono passati parecchi, ma lui non dimentica.
"Ci hai lasciati nella merda" e aveva ragione. C'era molto lavoro, ma io presi l'aspettativa e andai.
Sapevo che un'occasione così non mi si sarebbe presentata più.
La maggior parte dei treni della vita passano una sola volta, l'ho sempre saputo.
Andai via senza sapere quando sarei tornata.
Non avevo mai preso un aereo prima di allora, ma 15 ore di volo furono una passeggiata. Ero troppo curiosa, entusiasta, desiderosa di vivere per lasciarmi prendere dal panico.
Arrivai a Los Angeles ma rimasi inizialmente delusa. Mi aspettavo una città elegante come NY, mi trovai in un posto più simile al Sud America. Automobili degli anni 70, strade a molte corsie ma poco curate.
Ci misi un mese ad innamorarmi di Lei (El Ei) , ma quando accadde fu per sempre.
Andai a scuola, trovai un lavoretto, qualche amico ma soprattutto trovai me stessa. Niente come la solitudine unita alla bellezza sconfinata aiutano a trovarsi. E le giornate trascorse davanti all'oceano incazzato fecero molto.
Ci andai con le persone sbagliate - fossi andata da sola o con Giorgio a quest'ora sarei ancora lì - e tornai dopo 6 mesi, da sola. Ma con una forza che soltanto lì mi accorsi di avere. Una consapevolezza che non mi ha lasciata più.
Non dimenticherò l'aria leggera che non sapeva di niente, il rumore dell'oceano anche a chilometri di distanza. Le colazioni al tavolo con Robbie Williams nel baretto a West Hollywood... L'appartamento su Sunset Boulevard. La 26esima strada a Santa Monica dove lavoravo come baby sitter. La scuola ebrea su Crescent High e poi quella "pubblica" sulla Lincoln a Santa Monica. I compagni di classe che "sbavavano" quando parlavo in italiano, lingua che alle loro orecchie doveva suonare proprio bene.
E poi i viaggi... La Pacific Coast fino a San Francisco. L'indimenticabile Joshua Tree e il masso su cui mi addormentai. La piscina nel deserto... di notte. L'incredibile Grand Canyon e la vertigine nel guardare giù. Fu un'emozione che per poco non mi scoppiava il cuore... Piansi tutta la mia impotenza davanti a una simile maestosità.
L'accecante Las Vegas e di nuovo l'oceano. I cerbiatti a Topanga Canyon.
La calabrese Malibu.
Un desiderio di tornarci che non mi abbandona più.

venerdì 28 novembre 2014

Ultimo mese da trantanovenne: giorno 2

Mia nonna.
Mia nonna che per me non rappresenta solo una donna, una madre elevata al quadrato, ma anche un angolo di questa Terra al quale mi sento molto legata. Che se qualcuno mi chiede di dove sei, io pur essendo nata e (ahimé) cresciuta a Milano e avendo un padre siciliano, dico: CALABRESE.
Mia nonna Maria e la Calabria.
Lei che quando veniva a Milano, dormiva in camera con me.
Sapeva che soffrivo di solitudine, che dormire in camera da sola l'ho sempre vissuto come una punizione, allora ogni tanto veniva, per farmi dormire serena.
La sua presenza doveva rasserenare anche mia madre, che proprio in quei giorni smetteva di praticare lo sport di quei tempi: malmenare i figli per placare le proprie isterie.
Nonna Maria, che bloccava mia madre con uno sguardo, per me era la regina del mondo.
Quando andavamo a trovarla in Calabria, tutte le estati e a volte anche a Natale, appena ci vedeva sbatteva due uova.
"Comu siti scarsi, mari figghioli..." diceva, osservando preoccupata i nostri visi color verde/milano.
Il suo compito era di farci ingrassare - al più presto! - e prendere colore. Nutrirci di pipi chini,  pruppettedde e pasta e fagioli, delle sue risate senza ritegno (tutto ciò che mi  è rimasto di lei) e i profumi dell'aria...
Profumi bianchi, al gelsomino.
Profumi verdi, al bergamotto.
Profumi blu, all'acqua di mare.
Non un mare qualunque: IL Mare.
Mia nonna che era anche mare, oltre che terra e madre, quel mare che esiste solo lì, sulla punta più estrema dello stivale.

Mia nonna che rappresentava la forza, la potenza.
Mia nonna che non aveva paura di nulla. Che non ebbe paura di morire, a ottant'anni. Si comportò come aveva sempre detto: "quandu voli u signuri, sugnu cà".
Dormì due giorni, poi con un vortice d'aria fresca che buttò per terra i fiori, si liberò.
Solo allora realizzai la più atroce delle verità.
A 19 anni.
Se era morta lei, che era la persona più forte del mondo, allora saremmo morti tutti.
Ma mi guardai allo specchio e anziché il mio volto, incontrai quello di mia madre.
Mia madre si guardò allo specchio, e ci trovò sua madre.
Un ciclo si era concluso alla perfezione.
Aveva sempre venduto garofani sull'uscio di casa, mia nonna.
Quando se ne andò, decise di farlo con i fiori.

giovedì 27 novembre 2014

Ultimo mese da trentanovenne: giorno 1



Ieri mi sono resa conto che quello che è appena iniziato, è l'ultimo mese da 39enne.
So che tra un mese la mia vita non sarà diversa - graziaddio - però il passaggio dai 30 ai 40 anni mi incupisce da un paio d'anni.
40 porca vacca, QUARANTA.
E io che me ne sento 25, che grazie al cielo ne dimostro quarant-trent-venticinque (lasciatemi delirare).
Comunque ho deciso di scrivere ogni giorno un ricordo di questi miei primi quarant'anni, per salutarli come meritano. Perché nonostante tutto, sono stati anni benedetti. Molto vivaci, emozionanti, ricchi di soddisfazioni e delusioni. Un'altalena senza la quale non mi sarei potuta sentire tanto viva e vulcanica e pazza e malinconica.
Il ricordo più potente di tutta la mia vita, è proprio quello che per anni ho giurato di voler dimenticare. Il più doloroso di tutti. Un dolore fisico atroce, inimmaginabile, che mi ha quasi mandata al creatore, ma che in tutta onestà... rivivrei.
Perché mi ha portato Lei: la mia prima figlia, l'emozione più travolgente della mia vita. Questo esserino vivo, con due occhi enormi che è uscito da me, vivo!, e mi ha guardato negli occhi. Aveva un viso che mai avrei immaginato - non mi somigliava per niente - i capelli neri, che dico?!, una MONTAGNA di capelli neri, due occhi che erano tutta pupilla, anch'essa nera. Le gambe lunghe, la pelle arrossata, lo sguardo incazzato.
Giorgia Maria e la sua nascita.
Il ricordo più potente dei miei primi quarant'anni.

mercoledì 22 ottobre 2014

Spazio ai nuovi autori! (Solo quelli mozzafiato)








Fuga dal destino è un thriller mozzafiato che tiene col fiato sospeso dall'inizio alla fine.
Una trama molto ben congegnata, ricchissima di sorprese tanto che alla fine si rimane completamente spiazzati e da un certo punto in avanti si legge a oltranza perché non si può più dormire senza sapere come va a finire!
Mi ha colpito la ricchezza delle situazioni, la complessità dei molti personaggi. Una cosa più unica che rara nel libro di un esordiente. Per non parlare dello stile fluido e coinvolgente. Più volte mi sono immedesimata nei personaggi femminili, e ho sofferto e tifato per loro!
Davvero un libro che mi ha colpita molto positivamente, che consiglio e che molto probabilmente un giorno rileggerò.

lunedì 13 ottobre 2014

Spazio ai nuovi autori! (Solo quelli follemente poetici)





"Il blu che non è un colore" è un breve romanzo completamente fuori dagli schemi. 
Apparentemente senza trama, alterna dolcissime poesie a violentissimi sfoghi dell’autrice.
Leggendolo mi sono sentita come sopra una zattera, in un mare in tempesta. Consegnata al fondo dell'oceano e poi scaraventata su, fino ai confini del mondo.
Si tratta di un libro… che non è un libro.
Del blu... che non è un colore.
Questo blu che ricorre nelle poesie e placa le inquietudini dell’autrice. Che sono onde, come quelle del mare; onde vivaci, schiumose che appartengono a ognuno di noi, che ci riguardano tutti, ma che l’autrice è riuscita a domare, con la potenza della poesia e un uso sapiente delle parole, nel suo bellissimo monologo teatrale.
Il blu che non è un colore è un tuffo dentro le sfaccettature più complicate della nostra anima. 
E io, personalmente, ne sono uscita fortificata.

lunedì 29 settembre 2014

Spazio ai nuovi autori! (solo quelli geniali)



Ho concluso questo romanzo ieri. 
Il primo pensiero che mi è venuto in mente, a inizio lettura, è stato: questo (l'autore) è un pazzo.
Poi però ci si addentra nella storia, e pur continuando a ripetersi che solo una mente folle può generare un simile racconto, si nota uno sti
le impeccabile.
Follia e precisione, il passo è facile: genialità.
Non voglio fare accenni alla trama, perché è talmente originale che toglierei la sorpresa a qualcuno; posso solo dire che per tutta la lunghezza del romanzo non ci sono mai, in nessun punto, cali di tono.
L'autore è molto abile a tenere inchiodati i lettori, divertento, stupendo, a volte suscitando qualche piccola inquietudine e lasciando anche un po' con il fiato sospeso.
Un libro che secondo me è paragonabile a un film molto famoso, che ho sempre amato: il Rocky Horror Picture Show.
A lettura ultimata, la sensazione che ho provato è la stessa sperimentata alla fine di quel film.
Ecco, se fossi un regista, un libro così lo sceneggerei.
Visto che non lo sono, mi limito a consigliarne spassionatamente la lettura.

mercoledì 17 settembre 2014

Spazio ai nuovi autori! (Solo quelli bravi)






Ho letto questo libro come si fa con le cose preziose.
Lentamente.
Lo stile delicato, armonioso e scorrevole dell’autrice mi ha accompagnata in un mondo che non conoscevo.
Come tutto ciò che è nuovo un po’ mi spaventava, le stesse sue ansie iniziali erano le mie.
“Dove andrò? Ce la farò da sola?”
Ma lei è una donna coraggiosa, sa tenere per mano.
Descrive talmente bene i paesaggi - che ogni volta incontra con stupore - che sembra di vederli. E non si limita a restituire delle immagini ma trasmette i profumi di questa terra benedetta e maledetta insieme, la sensazione della sabbia rossa - che non andrà più via - sui piedi.
L’amore che l’autrice prova per questa terra, che cresce minuto dopo minuto, parola dopo parola, non lo si legge: lo si respira.
E poi, fondamentale, l’esperienza umanitaria.
Il legame, forte da subito, con queste persone - brave persone - che diventano subito famiglia per amore del prossimo.
Una famiglia che incoraggia e consola. Unita dallo stesso ideale. Dallo stesso desiderio di fuga dalla banalità del nostro occidente, per rifugiarsi in una verità che è il bene. 

La semplicità.
L’altruismo.
L’amore.
Un libro che non è un libro ma un dono. Che chiunque dovrebbe leggere. Perché fa bene al cuore. Culla l’anima e a modo suo la consola.
E adesso, pur non essendoci mai stata, mi sembra di sapere cosa sia il… mal d’Africa.

Libro CONSIGLIATISSIMO.

lunedì 8 settembre 2014






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Il libro potrà essere scaricato seguendo i seguenti link:

mercoledì 12 marzo 2014

Domani? Non so...




Domani.
Una parola semplice, composta da sei lettere, comprensibile anche a mia figlia di due anni e mezzo.
«Domani andiamo all’ascilo?» mi chiede Giulia Rose, con la sua dolcissima pronuncia bambinesca.
«Domani vediamo i cattoni
«Sì, domani amore; adesso dormi.»
La grande invece, che di anni ne ha cinque e mezzo, ogni sera prima di addormentarsi mi chiede ossessivamente cosa faremo il giorno dopo; anche se sa esattamente cosa faremo, sente il bisogno di sentirselo dire.
«Domani andremo come sempre all’asilo; dopo l’asilo faremo merenda al parco e torneremo a casa. Poi giocheremo un po’ insieme, guarderemo tanti cartoni (questa è la parte che le piace di più), mangeremo qualcosa di buono, leggeremo “Il piccolo principe” e andremo a nanna.
«E dopodomani?»
A volte si spinge fino al dopodomani, e ogni tanto sbotto.
«Giorgia, sai perfettamente cosa faremo dopodomani.»
«Ti prego, dimmelo tu…»
Sospiro rassegnata e ricomincio a elencarle la vita che l’attende tra due giorni.
«Dopodomani è mercoledì, per cui andremo all’asilo, dopo l’asilo faremo merenda al parco e poi torneremo a casa. Giocheremo un po’ insieme, guarderemo tanti cartoni animati e ceneremo; poi leggeremo “Il piccolo principe” e finalmente andremo a nanna.»
«E dopo-dopodomani, cosa faremo?»
«Buona notte Giorgia, fai bei sogni» le rispondo, prima di perdere del tutto la pazienza.
Odio mentire.
Lei cerca una sicurezza in più, e la cerca in me; si fida ciecamente ma non sa che io ne so meno di lei.
Vuole avere la certezza che domani si sveglierà, andrà all’asilo e tornerà a casa. Vuole che le dica che domani non accadrà nulla di sorprendente, perché lei, come tutti i bambini, non ama le sorprese.

Anch’io da bambina non amavo le sorprese.
Soprattutto dopo quella sera d’estate, in cui  uscii a fare una passeggiata con mio nonno Mico.
Ero in vacanza con la mia famiglia, come sempre in Calabria.
I miei genitori erano in casa, stravolti dal caldo, insieme ai loro fratelli e ai loro cognati; insieme alla nonna.
Guardavano un programma alla tv con Nadia Cassini.
Il nonno quella sera mi chiese se volevo andare a vedere i bergamotti; due giorni dopo saremmo ripartiti per Milano e ancora non mi ci aveva portata.
Mi accompagnò in quel punto, sulla strada maestra, in cui allungando una mano si sfioravano le cime degli alberi.
Raccolse un bergamotto e con occhi lucenti me lo mostrò.
«Senti come profuma» mi disse orgoglioso.
«Sembra un arancio…»
«Sembra! un arancio» mi interruppe «ma non lo è. Questo è un frutto prezioso… Non è nato per nutrire il corpo ma l’anima. Ogni profumo che si rispetti, nasce da qui.»
Guardai quel bergamotto come si osserva un segreto, attenta a non toccarlo perché le mie manine immacolate si sarebbero potute macchiare anche solo sfiorandolo.
Mi riempii gli occhi e le narici con quel frutto misterioso; nutrii bene il mio spirito, poi mio nonno lo lanciò lontano.
«Nel punto esatto in cui cadrà quel bergamotto, nascerà un nuovo albero. Devi sapere che quello che ti ho appena mostrato è un frutto magico e raro: nasce qui e in nessun altro posto al mondo. Hanno provato a coltivarlo perfino in America, ma non ha attecchito! Qui basta lanciarlo…»
Appoggiò il suo sguardo fiero sulla piantagione.
«Questa è la Calabria, amore mio, altro che America!»
Chissà cos’era l’America, a quattro anni.
Poi il nonno mi prese per mano e ci incamminammo verso casa.
Nonno Mico, con la mano dura di chi ha bruciato i suoi anni migliori in miniera, e poi nei campi a coltivare i garofani; quel volto da ottantenne nel corpo di un – forse – cinquantenne. Non conoscevo nessuno con così tante rughe a quei tempi; non conosco nessuno con gli occhi color cielo d’autunno, come i suoi.
I capelli bianchi, come la neve che non aveva mai visto; la schiena dritta di chi non ha paura di nulla.
A un passo da casa si fermò a salutare compare ‘Nzuzzo, che se ne stava sul terrazzo sperando di trovarvi un po’ di ristoro.
«Stanotti mi curcu cca 'mpari Micu, faci troppu caddu!»
Io tutta felice salutai le sue nipotine.
«Oggi la mamma mi ha regalato una bambola, aspetta che te la mostro!» disse Lisa, correndo a prenderla in casa, dall’altra parte della strada.
Aveva sette anni.
Ninetta, cinque anni, la seguì a ruota.
Ovviamente le seguii io, che di anni ne avevo quattro.
«Domani  vado a salutare il mare» dissi, correndogli dietro.
Lisa si voltò di scatto.
«Non passare!!!» echeggiò, rivolgendosi a me.
Ninetta mi guardò impietrita.
Ricordo un rumore assordante, un boato che mi travolse e mi risucchiò nel nulla.
Vidi tutto rosso, rosso fuoco.
Ebbi caldo.
Domani.
La mamma ha detto che...
Il mare.
Il rosso diventò nero, e lentamente il nero divenne un faro bianco puntato su un preciso punto dell’asfalto, laggiù. Come a teatro quel fascio di luce illuminava un unico volto; intorno era tutto buio e immobile.
C’era una bambina sdraiata per terra, in posizione fetale.
La vidi dall’alto.
Da molto in alto.
Quella bambina ero io.
Non fatela vedere alla mamma!
Aprii gli occhi.
Il padre di Lisa mi teneva fra le sue braccia e imprecava. Mi teneva premuto qualcosa sulla fronte. Un liquido rosso mi annebbiava la vista.
«Voglio il mio papà.»
Vidi, non so come, la sua Ford Taunus 1300, color oro antico, dietro di noi.
Riaprii gli occhi ed ero in un luogo bianco: le pareti erano bianche, così come l’armadio, il pavimento e il camice di un uomo che mi guardava sorridendo, con un ago e un lungo filo verde in mano.
Riaprii gli occhi e accanto a me, in un lettino d’ospedale, c’era mia madre che mi teneva stretta e piangeva.
«Appena esci dall’ospedale ti ammazzo di botte. Quante volte ti ho detto di non farti male?!»
«Mamma, quando usciamo dall’ospedale?»
«Domani.»
Quell’anno non salutai il mare.
Ed è forse per questo, per quel mio domani tradito, che non illuderò più le mie figlie.
Stasera, quando mi chiederanno cosa faremo domani, risponderò loro:
«Domani? Non so…»