lunedì 28 ottobre 2019

La cura



Ecco l'ottavo libro dell'anno - una media scandalosa ma, visti i tempi difficili, mi sembra già miracoloso riuscire a leggere e capire qualcosa - subito dopo un altro libro di Hesse, Narciso e Boccadoro. Forse è proprio di quest'autore che ho bisogno in questo periodo, non escludo di proseguire con un altro suo libro.
"La cura" non è stata una lettura premeditata. Mi è capitata tra le mani per caso, forse inconsciamente attratta dal titolo 😬Quando ho letto nella prefazione un aforisma di Nietzsche: "L'ozio è il padre della psicologia", ho capito che era ciò che cercavo e mi sono tuffata nella lettura. Ho navigato in acque chete per due mesi, anziché un paio d'ore. Il libro è molto breve e ci presenta un Hesse inedito, che si mette a nudo. Il protagonista è egli stesso, alle prese con le proprie fragilità che affronta in maniera quasi scanzonata e ironica, caratteristiche di cui pensavo fosse sprovvisto.
Hesse scrive questo breve sfogo, perché non si può definirlo romanzo, durante un periodo di cura a Baden a causa della sua sciatica, disturbo piuttosto frequente nei "vecchietti" della nostra età, e ho riso e sofferto con lui. Inutile girarci intorno ostentando una giovinezza che non c'è più; il corpo a questa età inizia ad avere i primi segni di cedimento, io stessa ho avuto un calo notevole della vista e ho iniziato a soffrire di acciacchi che si susseguono e rendono tutto più difficile. Anche lui confonde se stesso con la sua malattia, facendosi sopraffare. Diventa insofferente verso chi affronta i suoi stessi disturbi con spavalderia, compatisce - con un sottofondo di gioia - chi sta peggio di lui.
Alla fine, però, riesce a elevarsi, a stabilire che è la sciatica ad appartenergli e non viceversa. Gli spunti di riflessione sono molteplici. Lo consiglio a chi si trova ad affrontare questa stramba età di mezzo. Quasi quasi lo rileggo 😂

DAY 8: Joshua Tree



Il mattino in cui abbiamo lasciato Los Angeles ci siamo svegliati con calma, abbiamo sistemato le valigie, dato un'ultima occhiata sui tetti delle case vicine, salutato le palme, il grattacielo di Wilshere poco più in là. Abbiamo lasciato la casa azzurra verso le undici per dirigerci verso la Freeway che ci avrebbe condotto fuori città, verso il deserto.
Il traffico non ci ha mollati per un bel pezzo, motivo per cui non abbiamo rimpianto Los Angeles. In un paio d'ore abbondanti, dopo una sosta per il pranzo, siamo arrivati al nostro Hotel della catena "American Best Value" in Yucca Valley che, con la modica cifra di 60 dollari a notte, ci ha offerto anche la colazione.
Scesi dall'auto ci ha accolti un caldo impressionante, ci saranno stati almeno 35 gradi. Il motel, in tipico stile americano ci è apparso subito carino, ben arredato, con qualche cactus nel piazzale, il parcheggio vicino alla camera al piano terra. C'era anche la piscina, le bambine avrebbero preferito gettarsi dentro e trascorrerci l'intera giornata, ma il parco nazionale di Joshua Tree ci aspettava.
Dopo una breve pausa per mettere giù le valigie e riprenderci dallo sbalzo termico, siamo andati alla scoperta di questo posto magico.
L'ingresso, a 15 minuti dal motel e valido per qualche giorno, è costato, se non ricordo male, 30 dollari; purtroppo noi lo abbiamo sfruttato soltanto per qualche ora.




Ci siamo addentrati con l'auto, fermandoci di tanto in tanto vicino alle rocce più particolari. Gli alberi erano in fiore e c'erano molti fiorellini colorati sparsi qua e là nel deserto. La primavera non si ferma proprio davanti a niente...




Dopo un paio d'ore trascorse su e giù dalle rocce, ci siamo diretti verso un'altura che dominava la valle. Il paesaggio lassù era ancora più surreale, nonostante la foschia si intuiva l'immensità tutt'intorno. Abbiamo lasciato il parco all'imbrunire per tornarci di notte. Nessuno di noi aveva mai visto tante stelle e tanto buio nella propria vita. Ci siamo sentiti immensamente piccoli e infinitamente fortunati di poter assistere ad un simile spettacolo della natura, che avrebbe meritato qualche giorno anziché qualche ora.



lunedì 14 ottobre 2019

DAY 7. Ultimo giorno a Los Angeles: La Citadela e Long Beach



L'ultimo giorno a Los Angeles avremmo anche potuto risparmiarcelo. Avevamo visto tutto ciò che ci interessava e io scalpitavo per iniziare la nuova parte del viaggio. Ci aspettava Joshua Tree, il viaggio verso Williams attraversando il deserto e i paesini sulla Route 66 come Amboy, Oatman e Seligman. Ci aspettava il Grand Canyon, Las Vegas e San Francisco e avevo il terrore che per qualche motivo ci richiamassero in Italia prima di concludere questa bella vacanza.
L'itinerario di quel giorno è stato abbastanza superfluo e improvvisato. Dato che avevamo del tempo da perdere, siamo andati all'outlet "la Citadela" a una mezzora da casa. Lì abbiamo acquistato un paio di Nike per Giorgia a 35 dollari, due paia di Converse per Giulia e Giorgio a 30 dollari, due polo Calvin Klein a 19 dollari, e dell'abbigliamento leggero per il deserto di cui ero sprovvista. Avevo pensato a tutto, tranne al caldo infernale che mi avrebbe atteso una volta lasciata L.A.




Nessuno in casa ama i centri commerciali, eccetto Giorgia, per cui l'outlet è stato un piccolo supplizio ma con quei prezzi e il tempo a disposizione sarebbe stato un peccato non farci un salto. Poi siamo andati in un Mc Donald dove abbiamo scoperto che finalmente avevano cambiato la collezione degli Happy Meal: i Transformer avevano preso il posto di quegli adorabili animaletti di peluche che ci costringevano a mangiare lì, quasi quotidianamente. Quella è stata una delle ultime volte che siamo stati da Mc Donald, le bambine improvvisamente hanno iniziato a non sopportare più hamburger e patatine, che strano!




Dopo pranzo abbiamo deciso di visitare un posto fuori città in cui non ero mai stata: Long Beach. Un altro viaggio nel delirio della Freeway ci ha portato in questo posto che sembra proprio una località balneare, diversa da Venice e Santa Monica. Più raccolta, malgrado la spiaggia sconfinata e le piattaforme del porto davanti. L'acqua non era certo balneabile però in spiaggia si stava bene. C'erano poche persone, io e Giorgio abbiamo creato una tendina per la testa con dei bastoncini e il foulard di zia Maria e ci siamo goduti il tepore della sabbia sulla schiena mentre le bambine correvano a perdifiato e si rotolavano sulla spiaggia.



Nel tardo pomeriggio abbiamo fatto un pellegrinaggio nell'ultimo luogo dei miei ricordi: la casa di Frank, la persona gentile che mi aveva ospitato diciassette anni prima. Così ci siamo diretti nella zona residenziale di West Hollywood che però, nella parte che interessava a me, ho trovato un po' degradata. Abbiamo parcheggiato al 1936 di L.C. Road e sono scesa a sbirciare dentro, dove... non c'era Frank. La casa era molto più piccola di come la ricordassi e anche meno bella. C'erano dentro dei ragazzi più giovani di lui, che nel 2002 aveva 44 anni. Ho pensato che Frank - che in "Che ne sai dell'amore" ho chiamato Paul - avesse traslocato. In fondo gli americani non si fermano più di tanto nello stesso posto. Forse si era trasferito a New Orleans dove ai tempi viveva la fidanzata.




Comunque, senza grandi struggimenti e felice della mia vita attuale, molto più interessante e vivace di quella di allora, me ne sono tornata con la mia bella famiglia nella casettina azzurra; siamo andati nella vicina lavanderia a gettoni, abbiamo pranzato con della frutta e qualche sandwich presi da Seven e poi siamo andati a dormire :-)