martedì 26 aprile 2016

Uno, nessuno e centomila



Quante volte ci è capitato di voler vedere noi stessi da fuori, cioè con gli occhi di chi ci circonda? Io l'ho desiderato molte volte, soprattutto qualche anno fa, quando facevo dell'aspetto fisico una questione di vita o di morte. Volevo vedermi con occhi estranei e dunque capire chi fossi realmente. Perché ciò che penso io di me stessa è una questione del tutto parziale, e soprattutto a livello estetico sono la persona che mi conosce meno. Molte volte ho sognato di cogliermi di sorpresa e non riconoscermi, e quando questo è accaduto devo ammettere che è stato agghiacciante. Ho incontrato la mia immagine riflessa in uno specchio, ero in un negozio, molto distratta da una lunga fila di sandali. Insomma mi sono ritrovata davanti me stessa, ho sorriso gentilmente a quell'immagine, scansandomi per lasciarla passare. Quando il mio cervello ha messo a fuoco quel volto mi si è come ghiacciato il sangue. E' stato spaventoso. Innanzitutto perché se il mio cervello si fosse svegliato una frazione di secondo dopo mi sarei schiantata contro uno specchio, e poi perché è stata la prima volta che mi sono vista da  fuori. Ero così distratta da quei meravigliosi sandali che non ho espresso alcun parere a riguardo. Ho notato solo questa donna con uno chignon, abbronzata (e io che mi immagino sempre pallida) con una fronte e degli occhi piuttosto sporgenti. Tutto sommato carina.
Quando ho raccontato questo episodio a mio marito, lui ha subito citato Pirandello, e il giorno dopo lo ha fatto la mia amica Lisa. Allora mi sono precipitata nella libreria di casa dove non poteva certo mancare qualche libro di Pirandello. Ed eccolo lì, ciò che cercavo.
La lettura non è stata semplice, innanzitutto per via dell'italiano parlato da Pirandello che è leggermente diverso da quello attuale. Vado in tilt quando incontro un Sì accentato al contrario, immaginate l'effetto che può farmi un guajo o un usurajo. Inoltre la storia non scorreva. Infatti più che un racconto, ci si trova di fronte a un'enorme riflessione sull' "io". In molte punti trovavo le mie stesse riflessioni nei ragionamenti di Pirandello, che se non sbaglio ha scritto quel libro a quarant'anni.  All'incirca alla mia tremenda età di mezzo.
Spesso mi è capitato di pensare di avere dentro di me venti Stefanie diverse. Secondo lui, dovrebbero essercene molte di più. Con chiunque abbiamo a che fare, ci comportiamo in maniera diversa. Per cui mio marito (come la moglie di Pirandello) mi percepisce in un modo, il mio collega di lavoro e fratello in un altro, la mia amica Lisa in un altro, e il mio angioletto (Pagel) in un altro ancora. Quante Stefanie convivono dentro di me? Infinite. E quante ne esistono al di fuori? Altrettante, se non di più. Soprattutto oggi, in cui i social ci mettono in contato con centinaia di persone, il nostro "io apparente" si avvicina al centomila di Pirandello. Ma anche al nessuno. Perché se ognuno di quei centomila ci percepisce in un modo diverso, vuol dire che noi in realtà non esistiamo. In quanto molteplici, ci perdiamo l'UNO che ci rende qualcuno.
Più volte durante la lettura ho pensato che c'è da impazzire ad approfondire certi ragionamenti, ed effettivamente il personaggio del libro è impazzito sul serio. Confrontandolo al "Follia" di Mc Grath, penso che il vero libro degno di questo nome, sarebbe stato l'Uno, nessuno e centomila di Pirandello.
Un libro di cui ovviamente consiglio una lettura, e magari una rilettura se la prima lettura risale ai tempi del liceo.
La sconsiglio invece a chi come me - ma suppongo siamo in pochi - soffra di crisi di identità...

mercoledì 20 aprile 2016

Amleto


Il mio primo Shakespeare.
Sarà che l'ho visto rappresentato non so quante volte o che si tratta di una sceneggiatura e non di un romanzo, ma appena iniziavo a leggere mi ritrovavo catapultata in teatro. Un teatro vuoto con un palcoscenico brulicante tutto per me. Che fascino, che magia! Il re di Danimarca, lo spettro, la regina, Amleto!
Ho trovato in questo scritto un'ironia che purtroppo viene trascurata a teatro. Un senso dell'umorismo che non mi aspettavo da un uomo del 1600. E anche uno struggimento sfuggente; Amleto soffre per la morte del padre, si finge pazzo ma il quadro rimane protetto dalla finzione di cui è impregnato. "Questo è il teatro, bambina!" sghignazza William dall'alto dei cieli, qui tutto fa meno paura... il tradimento, la follia, la morte (SPOILER!! muoiono tutti), perfino il becchino riesce a cantare scavando la fossa di una giovane donna. E nessuno sviene di fronte a uno spettro.
Un gioco, un circo, una magia che allontana dalla realtà nuda e cruda: questa è l'opera di Shakespeare. Una lettura attraente come un sogno, che come esso incanta e implora di non essere dimenticato.
E chi lo dimentica??


lunedì 18 aprile 2016

Memorie dal sottosuolo



Memorie, ricordi di un'anima inquieta. Infelice, frustrata, confusa. Sembra lo sfogo di un quarant'enne. Come non capirlo.
Un Dostoevskij del tutto sconosciuto mi si è palesato davanti. Il romanzo è scritto in prima persona e almeno per una buona metà non ha trama. Un rigurgito di idee apparentemente sconnesse che trasmettono un vero senso di malessere. Lui, (chi?), non è stupido come tutti gli altri. E' un essere mentalmente superiore, cosa che lo rende consapevole della piccolezza della condizione umana. E allora forse è meglio non sapere. Perché se uno sa, compie le azioni peggiori. Io mi distinguo da voi, dunque mi autoflagello. La notte mi concedo le peggiori perversioni e il giorno vi sopporto in ufficio.
Non so, le continue contraddizioni a cui mi ha sottoposto mi hanno quasi fatto abbandonare la lettura. Ma poi, parlando con un amico l'ho citato. Ho citato Dostoevskij sostenendo che anche se la ragione ci imporrebbe di compiere ogni azione a nostro vantaggio, spesso è proprio lo svantaggio, l'agire per capriccio, a farci sentire vivi. Poter sbagliare, non seguire la strada più logica, prestabilita... la deviazione, questa sì che ci rende unici.
Quindi ho ripreso in mano il libro, che fortunatamente mi ha regalato una piccola storia. Quella di un ragazzo di venticinque anni che per capriccio si impone di uscire con dei vecchi amici, gente che non ha mai sopportato e dai quali è sempre stato ignorato. Ci esce forse per riscattarsi, per dimostrare loro la sua superiorità mentale e invece viene umiliato. Spende i pochi soldi di cui dispone per sentire tutto il peso - dal quale a tratti pare trarre piacere - del suo fallimento. Poi si ritrova con una prostituta che cerca di redimere col sapiente uso delle parole. E questa pare abboccare. Crede alle sue parole, ma quando si presenta da lui, viene insultata e umiliata. Per poi sparire nel nulla.
Davvero questo sembra un romanzo senza capo né coda, ma uno sfogo di Dostoevskij quarantenne non si discute. Quindi non vi dirò se mi è piaciuto o meno.

martedì 12 aprile 2016

#ioho20anni #iodonna

Vent'anni non li ho mai avuti, nemmeno a vent'anni. Ma ai tempi non ne facevo un cruccio. Avevo vent'anni! Oggi che non posso nemmeno pateticamente dire di averne venti per gamba, perché dovrei aggiungerne uno, mi chiedo attonita cos'ho fatto in tutto questo tempo. Com'è che è volato??
I primi capelli bianchi mi ricordano che qualche preoccupazione l'ho avuta.
Le rughe d'espressione mi suggeriscono che ho riso e pensato molto. La mia ex quarta di seno, che ho allattato due figlie. Le mie ginocchia, che ho camminato molto. La schiena quella no, mi faceva già male a quindici anni.
Ma gli occhi... sono sempre quelli. Lo sguardo di chi ha sempre voglia di prendere la direzione sbagliata anche se conosce perfettamente quella giusta, anche se sa, che si sfracellerà contro un muro. Perché quella possibilità, anche se disastrosa, la farà sentire viva, libera, leggera, ventenne!
A differenza degli specchi e del tempo, i miei occhi dicono sempre la verità.

mercoledì 6 aprile 2016

Vite di madri




Questo è uno di quei casi in cui mi dico che quando penso che ormai sia stato scritto tutto, e che qualunque altro esperimento sarà una ripetizione o una banale imitazione, mi sbaglio.
Oggi, ho incontrato una purissima novità.
Tra tutto ciò che ho letto finora non ho mai trovato nulla di simile a "Vite di Madri" di Emma Fenu.
Il libro parte con un prologo, scritto da un uomo. Già dal titolo, dalla dedica e dall'incantevole copertina si intuisce che è un libro strettamente femminile. Un libro che è impregnato di donna. Eppure la prefazione è scritta da un uomo, col nobile intento di prepararci a intraprendere il difficile viaggio dentro noi stesse.
I racconti sono dodici, e sono uniti da un filo che ha il colore del sangue. Dodici storie che sono raccontate in maniera del tutto eccezionale. Storie dolorose che più che narrate vengono sfiorate, come una carezza. Leggendole, si percepisce il conforto implicito di chi le ha raccolte e "tradotte" in poesia. Il contrasto tra la durezza degli episodi e la leggerezza della narrazione, toglie il fiato. Come se dei macigni fossero sorretti dalle nuvole. I racconti non sono semplici storie di vita vissuta, ma occhi che guardano; occhi di perfette sconosciute e i nostri stessi occhi ci scrutano.
La mano che accarezza, la nuvola che sostiene, è quella di Emma. Una specie di fata consolatrice. Lei non giudica, non giustifica, si limita a narrare - con il prezioso ausilio dei giganti della letteratura - il dolore, i traumi vissuti da alcune donne ma che appartengono a ognuna di noi.
Questo libro è un viaggio nel lato più oscuro dell'universo femminile. Ho pianto quasi a ogni racconto. Perché sono figlia, perché sono sorella, perché sono madre. E quando dico madre non intendo "mamma". Intendo proprio madre come mi ha insegnato Emma in questo libro. Madri si nasce, non si diventa. E a ben pensarci io sono madre da sempre. "Mamma", lo sono da appena otto anni.
Sono stata madre di mio fratello più piccolo quando da ragazzina lo difendevo dai prepotenti e stavo attenta che non prendesse brutte strade. Sono madre di mia madre, quando con tutto l'amore che ho la imploro di volersi bene. Sono madre dei mie romanzi, che ho cullato per anni dentro di me e li ho partoriti come figli. Sono madre di mio padre, quando lo sostengo nel ruolo di vecchio saggio, madre di mio marito del quale sono anche figlia, madre delle mie figlie, arrivate dopo una dura ricerca, un'infertilità per mia fortuna risolta.
Ma se non le avessi avute, sarei stata madre lo stesso. Questo mi insegna oggi Emma Fenu, svelandomi qualcosa che dentro di me sapevo già, ma non a livello cosciente.
Mia zia Maria non ha avuto figli ma è la migliore madre che esista. Questo l'ho sempre saputo!
Si è madri dalla nascita... non lo dimenticherò mai.
E non dimenticherò che madre non è sinonimo di felicità. Come non lo è essere "mamma".
Durante la lettura mi chiedevo perché mi ostinassi a leggere nonostante il dolore che mi accompagnava e si acuiva in alcuni punti della lettura. Ho pianto ad ogni racconto, eppure, non riuscivo a fermarmi.
La risposta è arrivata alla fine, nell'appendice, in cui sempre senza giudizi viene analizzata la maternità dei personaggi famosi. Quella che si trova ogni giorno spiattellata sulle pagine delle riviste alla moda. La felicità ostentata da queste neo-mamme, la donna bionica orgogliosa di sé, aiutata dai soldi e dal successo, con i figli perfetti, i mariti amorevoli, un lavoro che consente loro una scelta.
Quella non è vita ma... pura finzione.
Vite di madri invece trasuda VITA.
Le storie non si leggono, sono loro che leggono noi.
Il libro è magico, surreale nella sua concretezza, poetico nella narrazione, e leggero nonostante l'indiscutibile spessore.
Consiglio moltissimo la lettura di questo libro, anche se non è un libro semplice. Ma vi costringerà a riflettere e alla fine di tutto, ci si sentirà meglio.
Con quel sollievo che si prova soltanto dopo un lungo pianto, magari tra le braccia di una madre.

lunedì 4 aprile 2016

I demoni del Maggiore (spazio ai nuovi autori!)



Dopo qualche tempo torno a leggere un romanzo d'esordio. Il secondo thriller della mia vita, che come dissi per il primo, non è proprio il mio genere preferito. Eppure anche questa volta mi ha entusiasmato.
La storia è quella del Maggiore, un carabiniere che si trova coinvolto in un'indagine molto pericolosa. Vi è una setta satanica che uccide innocenti immolandoli al male, e questo bravo carabiniere, con l'aiuto dei suoi colleghi di cui è coordinatore, lotta contro il tempo per salvare le vittime dell'ultimo preannunciato omicidio. La curiosità durante la lettura cresce d'intensità, soprattutto perché si intuisce che il male non è molto distante dalle cerchie del Maggiore e fino alla fine si cercano gli indizi che ci diano l'agognata risposta alla domanda: ma il traditore, chi è?
La particolarità di questo romanzo è che permette di entrare all'interno di una caserma; per me un'assoluta prima volta. Non mi era mai capitato di vivere quasi in prima persona un interrogatorio, o una riunione tra investigatori. Ingenuamente non pensavo che anche questi uomini in divisa avessero dei punti deboli, tremassero per amore, si lasciassero ingannare facilmente da chi altrettanto facilmente ha conquistato la loro stima.
Il Maggiore, che inizialmente appare spavaldo e molto pieno di sé, è costretto durante la narrazione a ridimensionarsi. A umanizzarsi. E questo percorso al contrario è proprio ciò che rende questo romanzo unico.
Il libro mi è piaciuto molto; lo stile fresco e accattivante, la storia mai scontata, mi ha permesso di trascorre qualche ora in ottima compagnia.
Lo consiglio.

venerdì 1 aprile 2016

L'amico ritrovato



Che dire di questo libro... Che il titolo dice tutto. Un breve romanzo che somiglia molto a un dipinto. In poche pagine vi è condensata la bellezza, la potenza di un'amicizia che non si arrende davanti alle diversità delle idee, dalla provenienza sociale e culturale. L'amicizia che attrae come l'amore, e come esso non muore nemmeno quando sopraggiunge la morte. Quella vera.
Il periodo storico in cui è ambientato è quello odioso del nazismo. La nazione è la Germania. I personaggi sono due ragazzini tedeschi, uno dei quali di origine ebrea - ma ateo e tedesco da molte generazioni - e l'altro di discendenza nobile. Ateo e tedesco anch'esso.
La mostruosità del nazismo viene dipinta con poche pennellate. Più che leggerla la si respira, ed è ancora più doloroso.
Ma al centro del libro regna incontrastato questo immenso sentimento. Più potente di qualunque malvagità, di qualunque ignoranza, di qualunque olocausto.
Il bene vince sempre sul male, e non è un luogo comune. L'ho provato sulla mia pelle e questo libro ne è una prova ben più valida.
Si legge in poco più di un'ora. Davvero imperdibile.