mercoledì 12 marzo 2014

Domani? Non so...




Domani.
Una parola semplice, composta da sei lettere, comprensibile anche a mia figlia di due anni e mezzo.
«Domani andiamo all’ascilo?» mi chiede Giulia Rose, con la sua dolcissima pronuncia bambinesca.
«Domani vediamo i cattoni
«Sì, domani amore; adesso dormi.»
La grande invece, che di anni ne ha cinque e mezzo, ogni sera prima di addormentarsi mi chiede ossessivamente cosa faremo il giorno dopo; anche se sa esattamente cosa faremo, sente il bisogno di sentirselo dire.
«Domani andremo come sempre all’asilo; dopo l’asilo faremo merenda al parco e torneremo a casa. Poi giocheremo un po’ insieme, guarderemo tanti cartoni (questa è la parte che le piace di più), mangeremo qualcosa di buono, leggeremo “Il piccolo principe” e andremo a nanna.
«E dopodomani?»
A volte si spinge fino al dopodomani, e ogni tanto sbotto.
«Giorgia, sai perfettamente cosa faremo dopodomani.»
«Ti prego, dimmelo tu…»
Sospiro rassegnata e ricomincio a elencarle la vita che l’attende tra due giorni.
«Dopodomani è mercoledì, per cui andremo all’asilo, dopo l’asilo faremo merenda al parco e poi torneremo a casa. Giocheremo un po’ insieme, guarderemo tanti cartoni animati e ceneremo; poi leggeremo “Il piccolo principe” e finalmente andremo a nanna.»
«E dopo-dopodomani, cosa faremo?»
«Buona notte Giorgia, fai bei sogni» le rispondo, prima di perdere del tutto la pazienza.
Odio mentire.
Lei cerca una sicurezza in più, e la cerca in me; si fida ciecamente ma non sa che io ne so meno di lei.
Vuole avere la certezza che domani si sveglierà, andrà all’asilo e tornerà a casa. Vuole che le dica che domani non accadrà nulla di sorprendente, perché lei, come tutti i bambini, non ama le sorprese.

Anch’io da bambina non amavo le sorprese.
Soprattutto dopo quella sera d’estate, in cui  uscii a fare una passeggiata con mio nonno Mico.
Ero in vacanza con la mia famiglia, come sempre in Calabria.
I miei genitori erano in casa, stravolti dal caldo, insieme ai loro fratelli e ai loro cognati; insieme alla nonna.
Guardavano un programma alla tv con Nadia Cassini.
Il nonno quella sera mi chiese se volevo andare a vedere i bergamotti; due giorni dopo saremmo ripartiti per Milano e ancora non mi ci aveva portata.
Mi accompagnò in quel punto, sulla strada maestra, in cui allungando una mano si sfioravano le cime degli alberi.
Raccolse un bergamotto e con occhi lucenti me lo mostrò.
«Senti come profuma» mi disse orgoglioso.
«Sembra un arancio…»
«Sembra! un arancio» mi interruppe «ma non lo è. Questo è un frutto prezioso… Non è nato per nutrire il corpo ma l’anima. Ogni profumo che si rispetti, nasce da qui.»
Guardai quel bergamotto come si osserva un segreto, attenta a non toccarlo perché le mie manine immacolate si sarebbero potute macchiare anche solo sfiorandolo.
Mi riempii gli occhi e le narici con quel frutto misterioso; nutrii bene il mio spirito, poi mio nonno lo lanciò lontano.
«Nel punto esatto in cui cadrà quel bergamotto, nascerà un nuovo albero. Devi sapere che quello che ti ho appena mostrato è un frutto magico e raro: nasce qui e in nessun altro posto al mondo. Hanno provato a coltivarlo perfino in America, ma non ha attecchito! Qui basta lanciarlo…»
Appoggiò il suo sguardo fiero sulla piantagione.
«Questa è la Calabria, amore mio, altro che America!»
Chissà cos’era l’America, a quattro anni.
Poi il nonno mi prese per mano e ci incamminammo verso casa.
Nonno Mico, con la mano dura di chi ha bruciato i suoi anni migliori in miniera, e poi nei campi a coltivare i garofani; quel volto da ottantenne nel corpo di un – forse – cinquantenne. Non conoscevo nessuno con così tante rughe a quei tempi; non conosco nessuno con gli occhi color cielo d’autunno, come i suoi.
I capelli bianchi, come la neve che non aveva mai visto; la schiena dritta di chi non ha paura di nulla.
A un passo da casa si fermò a salutare compare ‘Nzuzzo, che se ne stava sul terrazzo sperando di trovarvi un po’ di ristoro.
«Stanotti mi curcu cca 'mpari Micu, faci troppu caddu!»
Io tutta felice salutai le sue nipotine.
«Oggi la mamma mi ha regalato una bambola, aspetta che te la mostro!» disse Lisa, correndo a prenderla in casa, dall’altra parte della strada.
Aveva sette anni.
Ninetta, cinque anni, la seguì a ruota.
Ovviamente le seguii io, che di anni ne avevo quattro.
«Domani  vado a salutare il mare» dissi, correndogli dietro.
Lisa si voltò di scatto.
«Non passare!!!» echeggiò, rivolgendosi a me.
Ninetta mi guardò impietrita.
Ricordo un rumore assordante, un boato che mi travolse e mi risucchiò nel nulla.
Vidi tutto rosso, rosso fuoco.
Ebbi caldo.
Domani.
La mamma ha detto che...
Il mare.
Il rosso diventò nero, e lentamente il nero divenne un faro bianco puntato su un preciso punto dell’asfalto, laggiù. Come a teatro quel fascio di luce illuminava un unico volto; intorno era tutto buio e immobile.
C’era una bambina sdraiata per terra, in posizione fetale.
La vidi dall’alto.
Da molto in alto.
Quella bambina ero io.
Non fatela vedere alla mamma!
Aprii gli occhi.
Il padre di Lisa mi teneva fra le sue braccia e imprecava. Mi teneva premuto qualcosa sulla fronte. Un liquido rosso mi annebbiava la vista.
«Voglio il mio papà.»
Vidi, non so come, la sua Ford Taunus 1300, color oro antico, dietro di noi.
Riaprii gli occhi ed ero in un luogo bianco: le pareti erano bianche, così come l’armadio, il pavimento e il camice di un uomo che mi guardava sorridendo, con un ago e un lungo filo verde in mano.
Riaprii gli occhi e accanto a me, in un lettino d’ospedale, c’era mia madre che mi teneva stretta e piangeva.
«Appena esci dall’ospedale ti ammazzo di botte. Quante volte ti ho detto di non farti male?!»
«Mamma, quando usciamo dall’ospedale?»
«Domani.»
Quell’anno non salutai il mare.
Ed è forse per questo, per quel mio domani tradito, che non illuderò più le mie figlie.
Stasera, quando mi chiederanno cosa faremo domani, risponderò loro:
«Domani? Non so…»