mercoledì 15 gennaio 2014

La tartaruga sulla cattedra



A quindici anni, quando l’universo medio adolescenziale traslocava dall’infanzia al mondo adulto, e i corpi delle mie coetanee iniziavano a fiorire in tutta la loro freschezza, io mi preparavo ad essere ricoverata al Gaetano Pini di Milano, dove mi avrebbero ingessata dal collo al fondo schiena per un anno intero. E dovevo pure ritenermi fortunata perché con quei  sette chili di gesso mi sarei risparmiata un intervento di cinque ore alla schiena. Un intervento che se fosse andato male -  come nel caso di una vicina di casa che per qualche istante era rimasta senza ossigenazione proprio durante l’intervento che avevo scampato – mi avrebbe potuta ridurre ad uno stato più consono ad un vegetale che ad un animaletto selvatico come me.
Abbracciai la mia sciagura, rassegnandomi a rinchiudere la mia schiena e il mio seno in piena fioritura dentro un osceno involucro di gesso, che rese il mio aspetto molto simile a quello di un tronco d’albero ambulante.
Finché ero in ospedale comunque la mia situazione disgraziata mi faceva sentire moderatamente a mio agio. Eravamo tutti ragazzi sui quindici anni con gravi problemi alla schiena.
Ricordo Giorgio, per cui persi anche la testa… e Anna, Luigi, Pierluigi.
Ma una volta uscita…
Intanto provai a indossare gli abiti coi quali ero entrata in quell’ospedale e mi accorsi che a malapena si allacciavano. Mi ritrovai di colpo da acciuga a tronco d’albero. Mia madre tentò di tamponare quel mio disagio regalandomi delle tute molto costose, di marche anche ricercate, chissà con quali sacrifici, poiché non è che navigassimo nell’oro. Ed io mi consolai pensando che ok, ero un tronco d’albero, ma con degli abiti firmati.
A scuola divennero quasi tutti più gentili, ma anche quella cortesia mi procurava disagio. Ero sempre stata un tipo che non aveva mai chiesto nulla a nessuno. Tutte quelle premure mi ricordavano, anche quando per esempio avrei potuto dimenticarmene, che ero un’adolescente diversa. Non del tutto autosufficiente perché ad esempio quando per gioco qualcuno mi metteva sdraiata sulla cattedra della classe, chiamandomi tartaruga, io non ero in grado di scenderne da sola. E non ero in grado di allacciarmi le scarpe. Fortuna che avevo sempre la mia amica Michela al mio fianco, che nel primo caso rideva e poi mi aiutava a scendere dalla cattedra senza farmi ribaltare a terra, e nel secondo si prestava sempre ad allacciarmi le scarpe.
Fu un anno tremendo quello, anche perché ingabbiare un corpo che sta affrontando il più radicale cambiamento della sua vita, fu un po’ come voler rimandare l’inizio della Primavera. Osservavo le mie coetanee coi loro bei vestitini, i loro corpi che iniziavano a prendere quella dolce forma ondulata, con due graziose sporgenze in alto, una sinuosa strettoia al centro e un nuovo arrotondamento più in basso.
Io ero un tronco d’albero.
Ma quell’anno in ogni caso passò, con molti più disagi di quanti ne possa ricordare. Ad esempio in ferie, per risparmiarmi il caldo africano della Calabria (che amavo), in cui andavo una sola volta all’anno a trovare i nonni, i miei amici più cari e il mare, venni portata in montagna, in un paese di anziani e famiglie con neonati, in cui una ragazza di quindici anni sarebbe potuta morire di noia.
Fortunatamente sopravvissi.
E giunse l’agognato diciannove ottobre 1990, quando finalmente mi tolsero il gesso con una piccola sega elettrica, che al solo ricordo mi si accappona la pelle; sembrava mi aprissero in due. Ormai quel guscio faceva parte di me, interamente ricoperto di scritte, in alcuni punti divenuto molle perché non si può vivere un anno lontano dall’acqua, e quell’estate al concerto di Eros – in cui andai per far felice Michela - ne ricevemmo a secchiate.
Insomma mi tolsero il guscio e io cascai per terra.
Mica facile togliersi sette chili di dosso in cinque minuti, e poi quel guscio mi sosteneva. Non dico che mi dispiacque toglierlo, anche perché tolto il gesso mi ritrovai il corpo di una bella sedicenne pronta a conquistare il mondo – non si può fermare la primavera - però era un pezzo di me, e tutt’ora, a trentotto anni, penso che farei carte false per poterci dormire dentro un’ultima volta.
Di quei mesi ormai lontani ricordo che mi ferivano più le attenzioni eccessive che i dispetti dei miei compagni . Quell’anno fui rimandata in francese, in cui avevo 6 meno, dalla stessa professoressa che si infuriava coi compagni che chiamandomi tartaruga mi rivoltavano sul guscio, ignorando il fatto che erano proprio loro a farmi sentire una persona normale, degna dei loro dispetti.
Lei si indignava… ma non si fece scrupoli a rimandarmi a settembre!
E sarà il tempo che addolcisce i ricordi, ma io nella mia diversità ci stavo bene. Forse perché sapevo che sarebbe durata poco; certo mi creò dei disagi, però quel gesso era il mio guscio, e mi aveva anche coccolata, a modo suo.
Penso che se la mia diversità fosse rimasta permanente avrei di certo avuto una vita meno facile, ma non per questo meno felice.
Avrei sicuramente fatto di tutto per non essere compatita, che è il peggior trattamento che si possa riservare ad una persona diversa.

Stefania Trapani


Racconto pubblicato all'interno della raccolta intitolata "La forza della diversità" edita da Edizioni Montag nel Dicembre 2013.
Il ricavato delle copie vendute verrà devoluto alla Lega Italiana Fibrosi Cistica - Onlus


1 commento:

  1. Breve quadretto autobiografico che evidenzia tutta la tua sincerità e sensibilità,e poi la tua ricerca interiore,in relazione a quel tuo momento storico,mi commuove.
    Pagel

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