martedì 17 giugno 2025

Occhi di Cielo


Lo zio non c'è più. Lui amava vivere, non sopravvivere. Alla fine si è lasciato andare. 

Il 24 febbraio è caduto in casa, si è rotto il femore. Non so se sia caduto perché aveva dimenticato la caffettiera sul fuoco e questa aveva iniziato a fondersi e produrre esalazioni tossiche. Oppure è caduto e non è riuscito a spegnere il gas. Fatto sta che quando sono arrivata a casa sua, lui era per terra e la casa era satura di fumo.

E' stato operato al CTO dove è rimasto ricoverato fino al 18 marzo; purtroppo dopo l'intervento ha avuto una serie di infezioni - tra le quali la polmonite - che l'hanno costretto a letto e gli hanno fatto perdere molto peso. Già lì temevo che si stesse lasciando andare, era totalmente inappetente, depresso, in un mese non l'avevano messo in piedi una volta. Prima di dimetterlo vedeva i nostri parenti defunti, me li nominava tutti, zio Giovanni, zio Salvatore, diceva che erano lì con lui e che li avrebbero dimessi con lui. Inoltre era completamente disorientato, a tratti pensava di trovarsi in carcere, anche a causa delle sbarre nel letto. Si sentiva imprigionato e gli infermieri erano per lui dei secondini.

Da lì è stato trasferito per un mese e mezzo al Redaelli di Milano/Bande Nere. Anche lì ha avuto altre infezioni, anche lì abbiamo temuto che si lasciasse andare a causa dell'inappetenza. Chiedeva spesso della zia - morta ormai da sei anni - mi implorava di dirle di chiamarlo, che non trovava più il suo numero. Non voleva che stesse in pensiero per lui. Allora gli avevo portato alcune foto di lui insieme alla zia, ma a causa di quelle si era convinto di essere a casa sua e non in un reparto d'ospedale. Diceva: "Stefy, vai a prendere le sedie in cucina e fai sedere gli ospiti", riferendosi ai parenti del signore con cui condivideva la stanza. Diceva di uscire quotidianamente, di camminare e correre senza problemi e di guidare per andare a fare la spesa. Invece faceva poca riabilitazione e non riusciva neanche a stare seduto in carrozzina senza sostegni. Il 31 marzo se n'è venuto fuori con: "La signora mi ha detto che domani mi trasferiscono", e io: "Quale signora?" e lui, ridendo: "Ma come quale signora? La conosciamo tutti, la signora!". Quando gli ho chiesto dove pensava di trasferirsi visto che non riusciva neanche a scendere dal letto da solo, aveva l'ossigeno al naso, le flebo e il catetere, lui mi ha risposto: "Ma Stefy, non lo capisci? Devo trasferirmi a livello esistenziale". Abbiamo trascorso un primo aprile da incubo, ma forse lo zio aveva solo voluto farci uno scherzo, un pesce d'aprile coi fiocchi, non so quanto consapevolmente.

Da Bande Nere è stato dimesso il 6 maggio e trasferito al Redaelli di Vimodrone; io avevo acceso diversi ceri alla Madonna e presentato molte domande perché ciò accadesse. Il Redaelli di Milano era davvero molto lontano da casa mia e per andare a trovarlo mi partivano interi pomeriggi mentre qui a Vimodrone riuscivo ad andare a trovarlo due volte al giorno senza dover perdere giornate di lavoro o fare eccessivi sacrifici e per me era una festa. Anche lui era molto contento, gli piaceva la stanza che dava sul giardino - c'erano due pioppi che gli ricordavano il  suo paese natale, che si chiama Pioppo - e il compagno di stanza, Giacomo,  a cui io mi sono molto affezionata e che vado ancora a trovare.

A fine maggio purtroppo gli è tornata l'infezione intestinale, una recidiva di Clostridium, ed è stata la fine. In quei giorni Giacomo mi aveva detto di aver visto una donna bellissima entrare nella stanza, in piena notte, e accostarsi al letto dello zio. Io ho pensato subito alla zia e ho iniziato a tremare. Intanto il poco appetito che aveva era sparito del tutto. Dovevamo fare i salti mortali per fargli mangiare un cucchiaio di pastina, e quando lo mandava giù sembrava ingerisse veleno. Ha iniziato a ripetere: "Devo tornare a casa, Stefy". Poi: "Devo rimandare di 48 ore la partenza, ma è ora di andare Stefy". Ha smesso del tutto di mangiare, poi ha rifiutato le pillole, poi l'acqua. A smesso di muovere un braccio e poi ha perso l'uso della parola. Un giorno riusciva a dire solo "mamma", poi "mia", poi "oooooohhh". Poi ha smesso di stringere le mani. Un pomeriggio i suoi occhi scuri sono diventati inspiegabilmente azzurri e ha smesso di vedere il visibile; ha iniziato a vedere l'invisibile. Quella sera, dopo un pomeriggio di visite - una fiumara umana di amici e parenti - quando gli ho detto: "Zio vado a casa, ci vediamo domani mattina", con uno sforzo estremo è riuscito a tirare giù lo sguardo dal soffitto e ha centrato il mio sguardo. I suoi occhi scuri erano di un azzurro mai visto, il volto trasfigurato, splendeva come un angelo. Con quel volto celestiale sovrapposto al suo, mi ha guardato negli occhi - i suoi occhi ridevano - e chissà quante cose mi ha detto. Ci siamo guardati senza parlare per dieci minuti davanti allo sguardo attonito di Giorgio che non capiva che cosa stesse accadendo. 

La mattina dopo era in coma. In coma, con gli occhi aperti. L'ho implorato tutta la mattina di chiuderli e riposare, non batteva le palpebre. Gli occhi erano sbarrati, sembrava voler guardare in faccia la morte. Gli occhi erano tornati ad essere del suo colore naturale, scuri; la sua anima bellissima, che mi aveva salutato la sera prima, non c'era più. Il pomeriggio ha finalmente chiuso gli occhi e abbiamo chiamato il prete per l'estrema unzione. Non avrebbe dovuto superare neanche quella notte, ma lui ne ha superate altre due. La sera prima di morire aveva il volto della serenità. Poi la mattina del 6 giugno, poco dopo le 12:00, ha smesso di respirare. Senza rantoli, senza sussulti, ha solo smesso di respirare. Il suo corpo, che si era messo in autoconservazione, si è spento.

E' stata una settimana che non dimenticherò finché vivrò. Trascorrevo con lui tutto il giorno, dalla mattina alla sera. Quando veniva a trovarlo qualcuno lasciavo la stanza e andavo a farmi coccolare dai vecchietti del reparto. Mi asciugavano le lacrime e poi mi chiedevano di giocare a carte con loro. Giacomo, in carrozzina, mi chiedeva di accompagnarlo al bar per un caffè; una volta lì mi ricordava di mangiare. Gli infermieri mi portavano di nascosto bicchieri pieni di orrendo tè caldo a limone. E adesso mi manca mio zio e mi mancano i miei amici anziani, con cui ho intrattenuto i più bei discorsi degli ultimi decenni. E ho dentro un vuoto terribile.