A quindici
anni, quando l’universo medio adolescenziale traslocava dall’infanzia al mondo
adulto, e i corpi delle mie coetanee iniziavano a fiorire in tutta la loro
freschezza, io mi preparavo ad essere ricoverata al Gaetano Pini di Milano,
dove mi avrebbero ingessata dal collo al fondo schiena per un anno intero. E dovevo
pure ritenermi fortunata perché con quei
sette chili di gesso mi sarei risparmiata un intervento di cinque ore
alla schiena. Un intervento che se fosse andato male - come nel caso di una vicina di casa che per
qualche istante era rimasta senza ossigenazione proprio durante l’intervento che
avevo scampato – mi avrebbe potuta ridurre ad uno stato più consono ad un
vegetale che ad un animaletto selvatico come me.
Abbracciai
la mia sciagura, rassegnandomi a rinchiudere la mia schiena e il mio seno in piena
fioritura dentro un osceno involucro di gesso, che rese il mio aspetto molto simile
a quello di un tronco d’albero ambulante.
Finché ero
in ospedale comunque la mia situazione disgraziata mi faceva sentire
moderatamente a mio agio. Eravamo tutti ragazzi sui quindici anni con gravi
problemi alla schiena.
Ricordo Giorgio,
per cui persi anche la testa… e Anna, Luigi, Pierluigi.
Ma una volta
uscita…
Intanto
provai a indossare gli abiti coi quali ero entrata in quell’ospedale e mi
accorsi che a malapena si allacciavano. Mi ritrovai di colpo da acciuga a
tronco d’albero. Mia madre tentò di tamponare quel mio disagio regalandomi
delle tute molto costose, di marche anche ricercate, chissà con quali
sacrifici, poiché non è che navigassimo nell’oro. Ed io mi consolai pensando
che ok, ero un tronco d’albero, ma con degli abiti firmati.
A scuola
divennero quasi tutti più gentili, ma anche quella cortesia mi procurava
disagio. Ero sempre stata un tipo che non aveva mai chiesto nulla a nessuno.
Tutte quelle premure mi ricordavano, anche quando per esempio avrei potuto
dimenticarmene, che ero un’adolescente diversa. Non del tutto autosufficiente
perché ad esempio quando per gioco qualcuno mi metteva sdraiata sulla cattedra
della classe, chiamandomi tartaruga, io non ero in grado di scenderne da sola.
E non ero in grado di allacciarmi le scarpe. Fortuna che avevo sempre la mia
amica Michela al mio fianco, che nel primo caso rideva e poi mi aiutava a
scendere dalla cattedra senza farmi ribaltare a terra, e nel secondo si
prestava sempre ad allacciarmi le scarpe.
Fu un anno
tremendo quello, anche perché ingabbiare un corpo che sta affrontando il più
radicale cambiamento della sua vita, fu un po’ come voler rimandare l’inizio
della Primavera. Osservavo le mie coetanee coi loro bei vestitini, i loro corpi
che iniziavano a prendere quella dolce forma ondulata, con due graziose
sporgenze in alto, una sinuosa strettoia al centro e un nuovo arrotondamento
più in basso.
Io ero un
tronco d’albero.
Ma
quell’anno in ogni caso passò, con molti più disagi di quanti ne possa
ricordare. Ad esempio in ferie, per risparmiarmi il caldo africano della Calabria
(che amavo), in cui andavo una sola volta all’anno a trovare i nonni, i miei
amici più cari e il mare, venni portata in montagna, in un paese di anziani e
famiglie con neonati, in cui una ragazza di quindici anni sarebbe potuta morire
di noia.
Fortunatamente
sopravvissi.
E giunse
l’agognato diciannove ottobre 1990, quando finalmente mi tolsero il gesso con
una piccola sega elettrica, che al solo ricordo mi si accappona la pelle;
sembrava mi aprissero in due. Ormai quel guscio faceva parte di me, interamente
ricoperto di scritte, in alcuni punti divenuto molle perché non si può vivere un
anno lontano dall’acqua, e quell’estate al concerto di Eros – in cui andai per
far felice Michela - ne ricevemmo a secchiate.
Insomma mi tolsero il
guscio e io cascai per terra.
Mica facile
togliersi sette chili di dosso in cinque minuti, e poi quel guscio mi sosteneva.
Non dico che mi dispiacque toglierlo, anche perché tolto il gesso mi ritrovai il
corpo di una bella sedicenne pronta a conquistare il mondo – non si può fermare
la primavera - però era un pezzo di me, e tutt’ora, a trentotto anni, penso che
farei carte false per poterci dormire dentro un’ultima volta.
Di quei mesi
ormai lontani ricordo che mi ferivano più le attenzioni eccessive che i
dispetti dei miei compagni . Quell’anno fui rimandata in francese, in cui avevo
6 meno, dalla stessa professoressa che si infuriava coi compagni che chiamandomi
tartaruga mi rivoltavano sul guscio, ignorando il fatto che erano proprio loro
a farmi sentire una persona normale, degna dei loro dispetti.
Lei si
indignava… ma non si fece scrupoli a rimandarmi a settembre!
E sarà il
tempo che addolcisce i ricordi, ma io nella mia diversità ci stavo bene. Forse
perché sapevo che sarebbe durata poco; certo mi creò dei disagi, però quel
gesso era il mio guscio, e mi aveva anche coccolata, a modo suo.
Penso che se
la mia diversità fosse rimasta permanente avrei di certo avuto una vita meno
facile, ma non per questo meno felice.
Avrei sicuramente fatto di tutto per non essere compatita,
che è il peggior trattamento che si possa riservare ad una persona diversa.
Stefania Trapani
Stefania Trapani
Racconto pubblicato all'interno della raccolta intitolata "La forza della diversità" edita da Edizioni Montag nel Dicembre 2013.
Il ricavato delle copie vendute verrà devoluto alla Lega Italiana Fibrosi Cistica - Onlus
Breve quadretto autobiografico che evidenzia tutta la tua sincerità e sensibilità,e poi la tua ricerca interiore,in relazione a quel tuo momento storico,mi commuove.
RispondiEliminaPagel