Mister
La primavera era appena iniziata e
Stefania si sentiva più stanca che mai.
Come ogni mercoledì uscì dal lavoro
giusto in tempo per precipitarsi a prendere sua figlia a scuola, portarla di
corsa a danza, e subito dopo la lezione fare un salto veloce al supermercato e
tornare a casa, fare una doccia insieme, dare una rassettata alla casa e
preparare qualcosa per cena.
Insomma tutti i giorni era la stessa
storia: una corsa continua contro il tempo.
“Sono un’atleta”, si ripeteva, per
trovare il coraggio di arrivare a fine giornata con un umore decente.
Era stanca, Stefania, come tutte le
mamme dei suoi tempi, ma tutto sommato la sua vita le piaceva.
Se solo le giornate fossero durate
26 o 27 ore piuttosto che 24…
Quel pomeriggio, fuori dalla scuola,
incrociò Paola, che stranamente quel giorno era riuscita ad uscire prima dal
lavoro ed era lì, al posto dei suoi genitori, a prendere la sua bambina.
“Ciao capitano”, la salutò sorridendo.
Ogni volta che la vedeva prendeva
come una boccata d'ossigeno. Anche Paola, che ammirava come un mito, era
trafelata almeno quanto lei.
“Oh… Tp!” rispose la giovane donna,
a differenza del solito cinque che le batteva ogni volta, in memoria dei bei
vecchi tempi.
“Tutto bene?” le chiese Stefania
stupita da quella variante nel suo saluto.
I particolari erano ciò che proprio
non le sfuggiva… Se non l’avesse incrociata per due anni di seguito, ad
esempio, si sarebbe stupita meno.
Paola era un tipo discreto, così le
si avvicinò lentamente e le parlò sottovoce.
“Hai saputo del Mister?” chiese
guardando da tutt’altra parte, sperando di ricevere una risposta anche solo
lontanamente affermativa.
“Gianca? No, non so nulla!”
Paola sospirò.
“E' stato male.”
A Stefania accelerarono i battiti
del cuore.
“… Oddio… quanto male?”
Michela se n'era andata da così poco
tempo... non era passato neanche una anno! Non era pronta ad una ulteriore
perdita di un pezzo del suo passato.
Il suo passato più dolce, quello
della squadra.
“Non dirmi che ha il tumore anche
lui, ti prego…” la implorò.
Ultimamente se ne stavano andando
tutti così.
Era accaduto anche a Loris, il loro
caro presidente… poi, dopo un paio d’anni, a Michela.
Non poteva essere già il turno di
Giancarlo!
“Non si è capito bene cos'abbia...
Ma non gli stanno dando molte speranze.”
A Stefania girò la testa.
“E' in ospedale?”
“Si, in terapia intensiva.”
“Mio dio.”
No. Stefania non era decisamente
pronta ad un'altra brutta notizia.
“Pare abbia qualcosa all'intestino...
Negli ultimi anni non ha fatto che mangiare schifezze, sempre dietro alla sua
squadra di pallavolo! Non ha una donna che si occupi di lui, una fidanzata, una
compagna, che so, una zia! Sai come sono gli uomini senza una donna vicino,
no?! Si trascurano! E lui soprattutto non si rende conto che gli anni passano
per tutti! L'eterno ragazzino!”
Paola era molto arrabbiata! Ebbe una
reazione degna di una donna matura, come quella che dovrebbe avere una madre o
una nonna.
In effetti a trentasei anni erano
entrambe mamme…
Gianca invece quanti anni aveva?
... Sicuramente era più grande di
loro quando aveva iniziato ad allenarle da ragazzine, poi erano diventati
coetanei quando intorno ai diciotto anni avevano entrambe lasciato la squadra,
ed ora... Gianca era decisamente molto più giovane di loro.
La sua vita andava al contrario
rispetto a quella di qualunque altro mortale.
Per questo era contro natura
immaginarlo moribondo!
“Lo stanno curando, almeno?” chiese
Stefania con un filo di voce.
“So che l'hanno operato d'urgenza…
E' andato in pronto soccorso quando il mal di pancia era diventato
insopportabile. Pensava di cavarsela con due pasticche, quell'imbranato! So che
gli hanno tolto subito una parte di intestino. Possiamo solo pregare per lui,
Tp.”
Pregare... Stefania era atea da
prima ancora che nascesse. Paola, questo, lo sapeva benissimo. Doveva essere
davvero disperata per rivolgere proprio a lei quella richiesta.
“Oh Capitano... dici che se la
caverà? Non sopporterei... non...”
Paola la abbracciò prima ancora che
Stefania finisse la frase. Sapeva quanto stesse ancora soffrendo per la perdita
di Michela.
“Non avrei mai voluto darti una
notizia del genere. Ma mi sembrava giusto che lo sapessi.”
Stefania prese sua figlia a scuola e
la fece salire in auto.
Sulla sua auto azzurra.
“Cos'hai mamma?”
Lei non le rispose nemmeno.
Notò per la prima volta che il
colore della sua automobile coincideva con quello dell'auto che Gianca aveva ai
tempi della pallavolo: una ritmo azzurra, su cui negli anni '80 riusciva a
caricare una squadra intera con tanto di sacca dei palloni.
Stefania fece sedere sua figlia sul
seggiolino, le allacciò le cinture...
“Le cinture...” sorrise tristemente.
Dieci ragazzine in un’auto, più
l'allenatore, più i palloni.
“A quei tempi le leggi dovevano
essere ben diverse…” farfugliò.
O più semplicemente Gianca aveva
sempre rischiato il ritiro della patente per la sua squadra.
La pallavolo era tutta la sua vita.
Aveva iniziato ad allenarle da
ragazzine, tutte sui 12 anni. Sembrava un gruppo promettente; lui a quell'età
le giudicava dal piede.
Aveva creduto in loro da subito, e
infatti nel giro di pochi anni aveva una rosa di sei titolari di cui la più
bassa, che solo i più intimi chiamavano “Tp”, era alta un metro e sessantanove
e aveva una schiacciata formidabile.
Il capitano, Paola, era conosciuta e
rispettata dalle squadre avversarie, e veniva chiamata da tutti “il fenomeno.”
Da una squadretta dell'oratorio in
pochissimo tempo erano diventate una temibile squadra di prima categoria, corteggiata
da alcune delle più importanti associazioni sportive del milanese.
Ma poi, purtroppo...
Tp fu costretta ad abbandonare la
sua adorata squadra sul più bello. Era la schiacciatrice più imprevedibile che
si conoscesse, ambidestra dalla nascita saltava più in alto delle ragazze molto
più alte di lei.
Quando schiacciava sembrava volare.
Per le avversarie, Stefania Tp era
“l'angelo nero”; eterea e spietata riusciva a schiacciare sulla linea dei tre
metri senza nemmeno sfruttare la diagonale, e quando prendeva di mira
un'avversaria allora diventava un vero e proprio cecchino. Solo gli occhi blu
del suo capitano riuscivano a placare l’odio immotivato che ogni tanto
s’impossessava di lei. Fosse stato per Gianca, invece, le avrebbe lasciato
massacrare le avversarie senza alcun ritegno!
Non che Stefania fosse una persona
cattiva, ma quando entrava in campo era come se entrasse in guerra. E lei, da
“angelo nero” quale era, odiava perdere.
Purtroppo perse la guerra più
importante: quella contro la natura.
Nonostante le visite agonistiche a
cui veniva spesso sottoposta nessuno si era mai accorto dei suoi cinquanta
gradi di scoliosi.
Se ne accorse quasi per caso il suo
medico di base, quando un giorno la
visitò per un'asma allergica stagionale, e notò, mentre le auscultava le
spalle, la grave, innaturale curva della sua colonna vertebrale.
Così, con un'ingessatura alla
schiena lunga un anno, si concluse la sua brillante carriera da pallavolista, a
soli diciotto anni.
Paola, “il fenomeno”, venne
acquistata da una squadra di serie B.
Ma anche la sua carriera non durò a
lungo: senza Gianca, Tp... senza la sua squadra non riuscì a rendere la metà di
quanto valeva.
Così nel giro di poco tempo smise di
giocare anche lei, la squadra si sciolse, Gianca ricominciò ad allenare una
squadra di ragazzine e da allora andò avanti ricominciando, ricominciando e
ricominciando, fino a quando non si ritrovò in ospedale, nella primavera del
2012, in un reparto di rianimazione, con un infarto intestinale.
“Non riesco a venire a trovarlo,
capitano…”, si giustificò Stefania
abbassando lo sguardo, una settimana dopo.
“Non devi sforzarti. Però se è solo
paura di impressionarti... beh, sbagli... lui dorme... dorme e basta. Sai,
dicono che potenzialmente potrebbe sentire tutto… Potrebbe fargli bene
ascoltare delle voci amiche... Bisogna trovare lo stimolo giusto per farlo
reagire. Però se non te la senti non c’è problema. Tanto c'è la processione
ogni volta che vado da lui. Noi siamo solo le più vecchie... magari nemmeno si
ricorda di noi.”
“Esagerata!” sorrise Stefania, che
conosceva bene Gianca e sapeva che mai e poi mai si sarebbe dimenticato di
loro.
“Mica tanto... ha delle allieve di
dodici anni. Quante ragazze avrà allenato dopo di noi?”
“Mi sa tante”, sorrise Stefania.
“Ricordi quando ti presentasti agli
allenamenti con gli occhiali da sole?” disse Paola.
“Con Michela ci abbiamo riso fino al
suo ultimo giorno di vita...”
“Povera Michela… ricordi quando
andava in battuta?” chiese Paola.
Stefania annuì.
“Colpiva la palla e poi faceva un
saltello...” si commosse. “Questa è la cosa che più mi manca di lei. L'immagine
che proprio non riesco a superare... il ricordo della sua battuta.”
“Gianca ce la farà”, disse Stefania
tra i denti.
Poi guardò Paola negli occhi.
“Mi hai chiesto di pregare, e io ho
pregato Michela. Giancarlo ce la farà.”
Tp non aveva mai visto il suo
capitano piangere. Nemmeno quando da ragazzine Gianca le sgridava sul campo,
urlando come un pazzo! Nessuno resisteva alla tentazione di piangere. Quelle
urla erano peggio di una pallonata sul naso, ma non per Paola, che non piangeva
mai.
Era un tipo orgoglioso il suo
capitano, forse per questo Gianca aveva scelto lei per quel ruolo.
“Verrò a trovarlo”, le disse un
pomeriggio di inizio estate.
A Paola brillarono gli occhi.
“Dici sul serio?”
“Si, verrò”, continuò titubante.
Era stata vicino a Michela, in quei
suoi ultimi giorni di vita, e sapeva quanto fosse doloroso stare accanto ad una
persona in bilico tra la vita e la morte.
Ma non voleva rischiare di non
vedere mai più il suo Mister.
Le sue condizioni erano critiche ma
stazionarie. Lo avevano operato altre undici volte nel frattempo; tentavano
disperatamente di salvarlo.
Il padre di una sua giovane allieva
lo aveva fatto trasferire nell’ospedale in cui lavorava per assisterlo più da
vicino.
Il problema principale, a quel
punto, era la sua totale mancanza di reazioni.
Anche quando lo toglievano dal coma
farmacologico lui non reagiva in alcun modo. Era finito come in un mondo tutto
suo dal quale non poteva, o non voleva riemergere.
Non sentiva nemmeno le voci di chi
andava a trovarlo.
“Mi accompagni tu, però”, le chiese
intimorita Stefania.
“Ma certo”, rispose prontamente
Paola.
In cuor suo sapeva che a Gianca
avrebbe fatto bene sentire la sua presenza.
Il giorno stabilito per la visita in
ospedale arrivò più veloce del previsto.
Stefania non era affatto pronta a
quell’incontro. Non era mai pronta ad incontrare dei morti viventi. Erano
sempre stati il suo incubo peggiore. Li sognava fin da bambina: morti che si
muovevano, che respiravano...
Ma Gianca non era morto, Gianca ce
la doveva fare: era il suo Mister!
Per trovare il coraggio si ritrovò a
compiere un gesto che prima di allora aveva fatto una sola altra volta, in una
situazione troppo simile a quella.
Tirò fuori la sua divisa di
pallavolo, ne ammirò il numero, l'insostituibile 7. Non avrebbe saputo giocare
senza quel numero sulla schiena e sul cuore. La strinse forte a sé, la annusò.
Le parve di sentire quel profumo di palestra e palloni che credeva di aver
dimenticato.
La indossò come si indossa un
cimelio.
Poi la coprì con una felpa. Non
voleva che gli altri la notassero. Avrebbero potuto provare pietà per lei.
Sarebbe stato intollerabile.
La sensazione di quella divisa sulla
pelle le restituì il coraggio dei tempi passati. Raccolse i capelli, in una
lunga coda... ricordò quante invasioni di campo aveva fatto coi suoi capelli,
con quanti arbitri aveva avuto da ridire per quella sua coda bionda, ma mai era
scesa al compromesso di tagliarla o ingabbiarla in uno chignon.
L'angelo nero aveva la coda. Punto.
Arrivò ai piedi dell'ospedale dove
c'era Paola ad aspettarla.
“Scusa il ritardo...” disse
imbarazzata.
“Non preoccuparti, sono appena
arrivata anch'io”, mentì Paola, comprendendola.
Entrarono in ospedale e a Stefania
parve di sentire le voci di una palestra gremita di gente.
I fari che la illuminavano erano
accecanti e lei… stava per schiacciare! Ma mancò la palla.
Gli spettatori la guardarono
increduli. Un errore del genere era imperdonabile!
L'angelo nero non sbagliava le
schiacciate in quel modo!
“La luce...” farfugliò ad alta voce.
Paola la guardò preoccupata.
“No, nulla...” proseguì Stefania,
estraendo gli occhiali da sole dalla borsetta.
Gianca, in panchina, rise divertito.
Stavolta non l'avrebbe allontanata dalla palestra, come fece qualche anno
prima, quando agli allenamenti si presentò indossando gli occhiali da sole.
Stava troppo male per infuriarsi.
Salirono prendendo le scale
dell'ospedale; Paola aveva la fobia degli ascensori.
Finalmente giunsero in reparto.
“E' in quella stanza lì... l'ultima
sulla destra...”
“Vai avanti tu?” chiese mestamente
Stefania.
“Ma certo”, rispose l’amica,
fingendosi coraggiosa.
L'odore della palestra travolse
Stefania, questa volta in maniera più decisa.
La gente faceva il tifo per lei, e
stavolta era in prima linea: non avrebbe fallito.
Arrivò una bordata dall'altra parte
del campo, la ricezione non fu delle migliori ma arrivò all'alzatore in maniera
sufficiente per servirle un’alzata impeccabile.
Allora Stefania inspirò
profondamente e spiccò un volo mai visto prima.
“Angelo nero! Angelo nero!”
Tra quelle voci riconobbe quella di
Michela.
“Non temere Tp, te l’ho promesso! Ce
la farà!”
E lei arrivò a sfiorare le stelle.
La visuale del campo, da lassù, era chiarissima, c'era un buco enorme proprio
di fronte a lei, nell'angolo destro del campo.
La sua posizione, in quel momento,
era la sua preferita: quella da fuori mano, proprio sulla destra... così
ricorse alla mano sinistra... quella che non perdonava.
“Ciao Gianca”, disse Paola.
Stefania schiacciò con tutta la
forza che aveva. Il tonfo del pallone, sull'angolo destro del campo, echeggiò
in tutta la palestra.
“Ciao Tp”, rispose Giancarlo dal suo
letto d'ospedale.
“Mancavi solo tu.”
Giancarlo lentamente si riprese e
dopo un paio di mesi era nuovamente su un campo di pallavolo.
Con lo stesso entusiasmo di prima e
un’età che era sempre più difficile da definire; col solito pacchetto di
patatine nel borsone, che lo attendeva per cena.
Stefania, invece, aveva ricominciato
a sentire il profumo delle palestre, ma non solo col cuore!
A sua figlia, infatti, era passato
il desiderio di indossare un tutù e trascorrere due pomeriggi alla settimana in
una scuola di danza. Giorgia aveva appeso le scarpette al chiodo e recuperato
un paio di ginocchiere e una vecchia divisa dall’armadio di sua madre…
Il numero che scelse fu ovviamente
il 7.
Il suo Mister?
Provate a indovinarlo.
“Mister” – Racconto inedito di Stefania Trapani
Che bella vicenda,e col lieto fine. :) Grande Stefania.
RispondiEliminaPagel