Domani.
Una
parola semplice, composta da sei lettere, comprensibile anche a mia figlia di
due anni e mezzo.
«Domani
andiamo all’ascilo?» mi chiede Giulia
Rose, con la sua dolcissima pronuncia bambinesca.
«Domani
vediamo i cattoni?»
«Sì,
domani amore; adesso dormi.»
La
grande invece, che di anni ne ha cinque e mezzo, ogni sera prima di
addormentarsi mi chiede ossessivamente cosa faremo il giorno dopo; anche se sa esattamente
cosa faremo, sente il bisogno di sentirselo dire.
«Domani
andremo come sempre all’asilo; dopo l’asilo faremo merenda al parco e torneremo
a casa. Poi giocheremo un po’ insieme, guarderemo tanti cartoni (questa è la
parte che le piace di più), mangeremo qualcosa di buono, leggeremo “Il piccolo
principe” e andremo a nanna.
«E
dopodomani?»
A
volte si spinge fino al dopodomani, e ogni tanto sbotto.
«Giorgia,
sai perfettamente cosa faremo dopodomani.»
«Ti
prego, dimmelo tu…»
Sospiro
rassegnata e ricomincio a elencarle la vita che l’attende tra due giorni.
«Dopodomani
è mercoledì, per cui andremo all’asilo, dopo l’asilo faremo merenda al parco e
poi torneremo a casa. Giocheremo un po’ insieme, guarderemo tanti cartoni
animati e ceneremo; poi leggeremo “Il piccolo principe” e finalmente andremo a
nanna.»
«E
dopo-dopodomani, cosa faremo?»
«Buona
notte Giorgia, fai bei sogni» le rispondo, prima di perdere del tutto la
pazienza.
Odio
mentire.
Lei
cerca una sicurezza in più, e la cerca in me; si fida ciecamente ma non sa che io
ne so meno di lei.
Vuole
avere la certezza che domani si sveglierà, andrà all’asilo e tornerà a casa.
Vuole che le dica che domani non accadrà nulla di sorprendente, perché lei,
come tutti i bambini, non ama le sorprese.
Anch’io
da bambina non amavo le sorprese.
Soprattutto
dopo quella sera d’estate, in cui uscii
a fare una passeggiata con mio nonno Mico.
Ero
in vacanza con la mia famiglia, come sempre in Calabria.
I
miei genitori erano in casa, stravolti dal caldo, insieme ai loro fratelli e ai
loro cognati; insieme alla nonna.
Guardavano
un programma alla tv con Nadia Cassini.
Il
nonno quella sera mi chiese se volevo andare a vedere i bergamotti; due giorni
dopo saremmo ripartiti per Milano e ancora non mi ci aveva portata.
Mi
accompagnò in quel punto, sulla strada maestra, in cui allungando una mano si sfioravano
le cime degli alberi.
Raccolse
un bergamotto e con occhi lucenti me lo mostrò.
«Senti
come profuma» mi disse orgoglioso.
«Sembra
un arancio…»
«Sembra!
un arancio» mi interruppe «ma non lo è. Questo è un frutto prezioso… Non è nato
per nutrire il corpo ma l’anima. Ogni profumo che si rispetti, nasce da qui.»
Guardai
quel bergamotto come si osserva un segreto, attenta a non toccarlo perché le mie
manine immacolate si sarebbero potute macchiare anche solo sfiorandolo.
Mi
riempii gli occhi e le narici con quel frutto misterioso; nutrii bene il mio
spirito, poi mio nonno lo lanciò lontano.
«Nel
punto esatto in cui cadrà quel bergamotto, nascerà un nuovo albero. Devi sapere
che quello che ti ho appena mostrato è un frutto magico e raro: nasce qui e in
nessun altro posto al mondo. Hanno provato a coltivarlo perfino in America, ma
non ha attecchito! Qui basta lanciarlo…»
Appoggiò
il suo sguardo fiero sulla piantagione.
«Questa è la Calabria, amore mio, altro
che America!»
Chissà
cos’era l’America, a quattro anni.
Poi
il nonno mi prese per mano e ci incamminammo verso casa.
Nonno
Mico, con la mano dura di chi ha bruciato i suoi anni migliori in miniera, e
poi nei campi a coltivare i garofani; quel volto da ottantenne nel corpo di un
– forse – cinquantenne. Non conoscevo nessuno con così tante rughe a quei tempi;
non conosco nessuno con gli occhi color cielo d’autunno, come i suoi.
I
capelli bianchi, come la neve che non aveva mai visto; la schiena dritta di chi
non ha paura di nulla.
A
un passo da casa si fermò a salutare compare ‘Nzuzzo, che se ne stava sul terrazzo sperando di trovarvi un po’
di ristoro.
«Stanotti
mi curcu cca 'mpari Micu, faci troppu caddu!»
Io
tutta felice salutai le sue nipotine.
«Oggi
la mamma mi ha regalato una bambola, aspetta che te la mostro!» disse Lisa,
correndo a prenderla in casa, dall’altra parte della strada.
Aveva
sette anni.
Ninetta,
cinque anni, la seguì a ruota.
Ovviamente
le seguii io, che di anni ne avevo quattro.
«Domani
vado a salutare il mare» dissi, correndogli
dietro.
Lisa
si voltò di scatto.
«Non
passare!!!» echeggiò, rivolgendosi a me.
Ninetta
mi guardò impietrita.
Ricordo
un rumore assordante, un boato che mi travolse e mi risucchiò nel nulla.
Vidi
tutto rosso, rosso fuoco.
Ebbi
caldo.
Domani.
La mamma ha detto
che...
Il mare.
Il
rosso diventò nero, e lentamente il nero divenne un faro bianco puntato su un
preciso punto dell’asfalto, laggiù. Come a teatro quel fascio di luce
illuminava un unico volto; intorno era tutto buio e immobile.
C’era
una bambina sdraiata per terra, in posizione fetale.
La
vidi dall’alto.
Da
molto in alto.
Quella
bambina ero io.
Non fatela vedere alla mamma!
Aprii
gli occhi.
Il
padre di Lisa mi teneva fra le sue braccia e imprecava. Mi teneva premuto
qualcosa sulla fronte. Un liquido rosso mi annebbiava la vista.
«Voglio
il mio papà.»
Vidi,
non so come, la sua Ford Taunus 1300, color oro antico, dietro di noi.
Riaprii
gli occhi ed ero in un luogo bianco: le pareti erano bianche, così come l’armadio,
il pavimento e il camice di un uomo che mi guardava sorridendo, con un ago e un
lungo filo verde in mano.
Riaprii
gli occhi e accanto a me, in un lettino d’ospedale, c’era mia madre che mi
teneva stretta e piangeva.
«Appena
esci dall’ospedale ti ammazzo di botte. Quante volte ti ho detto di non farti
male?!»
«Mamma,
quando usciamo dall’ospedale?»
«Domani.»
Quell’anno
non salutai il mare.
Ed
è forse per questo, per quel mio domani tradito, che non illuderò più le mie
figlie.
Stasera,
quando mi chiederanno cosa faremo domani, risponderò loro:
«Domani?
Non so…»